Al ritorno dal Festival di Cannes il nostro Stefano Laffi ci racconta la genesi e le ragioni di Futura, il film diretto da Alice Rohrwacher, Pietro Marcello e Francesco Munzi. Futura ha attraversato l’Italia per raccogliere lo sguardo delle nuove generazioni.
Futura per me è nato in una riunione del dicembre 2019. Da tempo io e Pietro Marcello sognavamo di fare un giro d’Italia attraverso le voci dei ragazzi e delle ragazze, Alice Rohrwacher e Francesco Munzi hanno sposato la causa. Il punto di partenza è stato Quello che dovete sapere di me (Feltrinelli, 2016), il libro curato da Codici ricerca e intervento e composto dalle lettere che hanno scritto centinaia di ragazze e di ragazzi.
Dopo un anno e mezzo di riprese, funestate dalla pandemia, quel progetto è oggi un film, presentato in anteprima alla Quinzaine a Cannes e in uscita in Italia a fine ottobre.
Futura è frutto di oltre 100 rulli, e questo vuol dire due cose: è stato girato tutto in pellicola e quello che si vede oggi è un’infinitesima parte di quanto è stato girato.
Marcello, Rohrwacher e Munzi hanno fatto qualcosa di raro e di prezioso: un lavoro collettivo, in cui l’autorialità e l’ego dell’artista sono completamente sacrificati alla causa del film, del dare voce e dell’ascoltare. Si sentono marginalmente le loro domande ma guai ad attribuire una scena all’uno o all’altra, perché le voci sono state a volte ridoppiate. Un percorso di ricerca, agli antipodi di Comizi d’amore di Pasolini per intenderci, senza tesi e senza sintesi, senza mai commentare o giudicare le risposte raccolte, anche per questo molto affine alla poetica che a Codici abbiamo nei lavori con i ragazzi e con le ragazze.
Ma è un film che spiazza anche i ragazzi e le ragazze molto più di quanto facciamo a Codici. Qui loro in più di una scena sono palesemente in difficoltà, per una precisa scelta estetica e morale. Al centro non ci sono le loro storie – fin troppo plasmate da loro stessi nella narrativa minuto per minuto dei social – ma le loro opinioni e il loro sentire il futuro. Si muovono su un terreno più impervio, nel quale spesso i racconti faticano a trovare le parole, o letteralmente ammutoliscono. Ed è girato non in digitale, che è parte di quella stessa manipolazione, ma con l’ingombro della cinepresa che i ragazzi e le ragazze non hanno mai visto. La cinepresa obbliga a non rifare, costringe a una serietà inconsueta, definitiva.
Futura è, come dicono i registi stessi, un film didattico, perché ti costringe ad ascoltare, a costruirti un’enciclopedia delle sensazioni che oggi attraversano le nuove generazioni, ma è al contempo un invito a chi fa cinema verso un cinema di servizio, meno autoriale, non a tesi. A sperimentare, in definitiva.
In quella riunione iniziale pattuimmo alcune questioni di metodo, che poi sono di principio: non ritratti individuali che avrebbero costruito personaggi, ma incontri di gruppo perché i ragazzi stanno in gruppo; se doveva essere un affresco generazionale, allora avrebbe dovuto rinunciare a creare l’affezione all’uno o all’altro, che pure scatta; un film plurale, con una campionatura di situazioni e di prospettive di vita molto diverse, chi lo guarderà vedrà cose che non immaginava; dialoghi e conversazioni, perché le parole non sarebbero mai state pronte su un tema così, accettando i silenzi, che nel film ci sono; solo la loro voce, senza adulti o esperti, come invece avviene sempre; momenti di azione, perché i ragazzi e le ragazze fanno un sacco di cose di cui non ci accorgiamo.
Fare un film così è difficilissimo, perché è molto faticoso: il cinema usa ancora la pellicola quando c’è un copione, qui non c’è mai, c’è una vaga traccia di domande ma poi serviva seguire le situazioni, i dialoghi per come si sviluppavano. Con l’incubo del rullo che finisce in dieci minuti e cambiarlo non è come mettere una scheda digitale: quando la scena si interrompe è finita, riprendere quel dialogo è impossibile. E poi costringe a un patto coi ragazzi difficilissimo da sottoscrivere: loro devono accettare di non potersi vedere mentre vengono ripresi, cioè di non controllare la loro immagine e di non sapere cosa verrà selezionato nel montaggio, anzi, sapere prima che la maggior parte del girato sarà scartato. Praticamente, il contrario di quanto sono abituati a fare. In cambio regala loro immagini che non avranno mai, in pellicola la bellezza naturale dell’adolescenza è luminosa.
Futura è l’affresco di una generazione, per altro colta nel momento di massima afasia sul presente e sul futuro, la pandemia. A Cannes diverse persone hanno proposto di fare la stessa operazione anche in altri paesi. Sarebbe un’ottima idea.
Il film va incontro a due tipi di reazioni.
Ci sarà chi lo sente, sta male o piange – in sala è successo – si preoccupa, ne capisce la gravità e l’urgenza – quasi tutti raccontano di vedere l’Italia come un paese senza speranza, da cui andarsene – perché ha avuto a che fare coi ragazzi e con le ragazze, ha dei figli, si è reso conto che non sa cosa consigliare, percepisce la disuguaglianza di opportunità, si è messo in discussione. Perché si rende conto che è mancato un passaggio di consegne, nel film le scene girate a Genova lo dimostrano: gli studenti e le studentesse della scuola Diaz di oggi vengono intervistati e dichiarano che a loro non è stato raccontato del massacro di venti anni fa al G8, il film li risarcisce col montaggio d’archivio di quel che successe.
E chi invece ne resta deluso, perché voleva l’ebbrezza della rivoluzione che non c’è, voleva opinioni forti contro cui scontrarsi mentre trova una pacatezza inconsueta e modi gentili, voleva asserzioni e trova incertezza e disorientamento, voleva un film a tesi come lo sono certi saggi, in cui le domande servono a confermare solo quello che si era già deciso di dire.
Alla fine Futura semplicemente dialoga con le ragazze e con i ragazzi, e apertamente nel finale li invita a riguardarlo tra venti anni, cioè a riguardarsi da giovani, grazie a un film che vuole essere un archivio del presente per un futuro che non conosciamo, che dobbiamo trattare come terreno di scoperta, guidati dal desiderio.