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Se non esistessero i bordelli

  • Delia Da Mosto Luglio 2024

bell hooks nel suo testo Choosing the Margin as a Space of Radical Openness sottolinea come la marginalità sia un «luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi» (pag. 150). La marginalità può assumere forme diverse. Può essere associata ad un genere, ad una razza, ad una classe, ma anche ad un’occupazione. Il lavoro sessuale rappresenta una marginalità per diversi motivi: lo praticano spesso soggettività marginalizzate; è fortemente stigmatizzato; ed è frequentemente regolamentato da legislazioni criminalizzanti, che pongono chi lo opera in condizioni di alto rischio.

Partendo dal riconoscimento della potenzialità degli spazi marginali del lavoro sessuale, riprendo le parole di Indianarae Siquiera, attivista e rappresentante politica del movimento LGBTQIA+ in Brasile:

I bordelli sono scuole di insubordinazione in cui si insegna a coloro che sono desideros* di imparare una libertà estasiante e orgasmica tra sospiri e piaceri. I bordelli sono una minaccia alla sottomissione delle mogli al patriarcato. Se non ci fossero i bordelli, le mogli tornerebbero a casa per lavare, stirare, cucinare e occuparsi dell* figl*[...]
Se non esistessero i bordelli...
Però esistono.

Questo stralcio deriva dal Puta Librino, una raccolta di testi scritti da sex worker e alleate del Coletivo Puta Davida, tradotti in italiano e pubblicati con Ombre Rosse e Edizioni Minoritarie, a partire dalla call Sommergibile finanziata da Codici. Questo volume è stato costruito sulla base di una ricerca etnografica che ho svolto nel 2023 a Rio de Janeiro. Per più di tre mesi mi hanno guidato diverse lavoratrici sessuali cis, trans e travesti che lavorano in alcune zone periferiche di Rio de Janeiro. Rapidamente mi sono resa conto che le visioni dicotomiche della povera vittima o della criminale, caratteristiche di molte discussioni intorno al lavoro sessuale, non sono in grado di cogliere la complessità delle loro esistenze. Al contrario le loro voci, i loro gesti e i loro corpi facevano emergere come, malgrado le condizioni di estrema marginalizzazione, non erano vittime, ma attrici principali delle loro storie.

Esclusione

Le donne trans o travesti con cui ho parlato mi hanno spiegato che, per loro, il mercato del lavoro era spesso inaccessibile proprio a causa delle violenze e delle discriminazioni a cui si esponevano per la loro identità di genere. Molte avevano dovuto abbandonare la scuola per atti di bullismo o per abbandoni familiari, generando lacune nelle qualifiche professionali per accedere al mercato del lavoro. Dati più recenti dell’Associazione nazionale di travesti e transessuali riportano come, a causa del processo di esclusione familiare, sociale e scolastica, solo lo 0,02% delle persone trans frequenti l’università, il 72% non abbia un’istruzione secondaria e il 56% un’istruzione primaria. Inoltre, anche se alcune soggettività riuscivano a trovare altre occupazioni, spesso subivano discriminazioni nel momento in cui intraprendevano un percorso di affermazione di genere e, come mi raccontò un giorno Lorena in un incontro di attiviste LGBTIAQ+, venivano licenziate:

Prima di prostituirmi, lavoravo come domestica, ma indossavo abiti da uomo. Quando il mio capo ha scoperto che stavo facendo un trattamento ormonale, ha cercato di licenziarmi... Già sono nera, povera e non ho un curriculum fantastico, quindi era già abbastanza difficile entrare nel mercato del lavoro, figurati se ti socializzi come trans o travesti…

In questa prospettiva, il lavoro sessuale rappresenta tutt’altro che un’ultima scelta o una scelta esclusiva. Al contrario permette l’entrata in un campo di possibilità, in una condizione di parziale libertà. Permette di ri-significare e di contrapporsi ai processi di marginalizzazione, raccogliendo capitali per progetti e desideri altrimenti irraggiungibili lavorando in altri settori. Spesso, a causa della loro condizione di marginalizzazione, le persone con cui mi interfacciavo avevano accesso solo a occupazioni considerate come lavoro di cura o di riproduzione. Per esempio, molte avevano lavorato come domestiche sottopagate in zone ricche della città, per cui il prezzo dei trasporti superava il guadagno mensile. Infatti, queste professioni, sebbene centrali per l’organizzazione e il funzionamento della società, oltre ad essere sistematicamente svolte dalla popolazione femminile più marginalizzata, sono fortemente svalorizzate e precarie. Secondo il Dipartimento di statistica e di studi socioeconomici, in Brasile, nel 2021, c’erano circa 5.7 milioni di persone che lavoravano nel settore domestico, con un guadagno mensile che oscillava tra i 150 (R$ 802) e i 250 (R$ 1.338) euro; di queste il 92% erano donne, il 65% erano persone razzializzate e solo il 24% del totale aveva un contratto di lavoro.

Falsi miti

Mentre il lavoro domestico e gli altri lavori di riproduzione sono sempre più mercificati, formalizzati e proletarizzati, il lavoro sessuale o affettivo, anch’esso ritenuto come lavoro riproduttivo, rappresenta la grande eccezione. Sebbene inserito dal 2002 nella Classificazione brasiliana delle occupazioni del ministero del Lavoro, è ancora esposto a una politica criminalizzante che rende di fatto impossibile la generazione di spazi organizzati dedicati alla prostituzione. È anche fortemente stigmatizzato. Infatti, in Brasile, come in molti altri paesi, «figlio o figlia di puttana» rappresenta ancora uno dei peggiori insulti che si possono fare a una persona. Inoltre, alle lavoratrici sessuali è tolto il potere familiare o la custodia dei figli in quanto non conformi a quanto previsto dall’art. 1.638 del codice civile che condanna «atti contrari alla morale e ai buoni costumi». Tuttavia, le storie di diverse lavoratrici sessuali che ho incontrato mentre ero a Rio rivelano come svolgere questa professione sia in realtà un modo per prendersi cura delle reti familiari. Un giorno, mentre fumavamo una sigaretta in una delle zone di prostituzione, Carmen, lavoratrice sessuale da più di 13 anni, mi raccontò:

Ho tre figli e il loro padre ci ha lasciato quando la mia figlia maggiore aveva 12 anni. Da quel momento ha iniziato a tagliarsi e a sentirsi molto male... L'ho sempre portata dal medico, che le ha dato molte medicine, ma a un certo punto ha tentato il suicidio e così ho dovuto passare sempre più tempo con lei. Lavorare come prostituta era uno dei pochi lavori che mi dava una certa flessibilità, in cui potevo decidere se quel giorno era un buon giorno per lavorare o se dovevo stare con mia figlia...

Molte delle soggettività con cui mi sono interfacciata erano persone che per motivi di genere, di razza e di classe sociale erano state marginalizzate ed esposte a diversi tipi di violenza. I fenomeni di oppressione potevano assumere diverse forme, come l’esclusione dal mercato lavorativo, la stigmatizzazione, gli atti di bullismo a scuola, ma quella che era più presente era la violenza domestica. Secondo la Rete dell’osservatorio di sicurezza, nel 2023, ogni 24 ore almeno otto donne sono state vittime di violenza domestica, e dei 586 femminicidi, il 72.7% era stato svolto da compagni o ex-compagni. Secondo i racconti delle lavoratrici sessuali, nel caso delle donne cis, queste violenze si concretizzavano in violenze fisiche, sessuali o psicologiche da parte di padri e mariti, e nel caso delle donne trans o travesti la non accettazione della loro identità di genere da parte della famiglia, portando a violenze o abbandoni. I circoli di violenza erano spesso senza un’apparente via di uscita. Proprio a causa dei diversi processi di marginalizzazione, frequentemente si verificava una forte dipendenza economica dalle figure violente, e dall’altra parte un’incapacità o non volontà di supporto da parte delle figure istituzionali, che non erano in grado di fornire un supporto efficace. In questa situazione, il lavoro sessuale si configurava come la soluzione più conveniente e rapida per poter uscire da circoli violenti.

Pratiche di parziale liberazione

Le esperienze singolari delle soggettività che mi hanno guidato in questo percorso, rivelano come in alcune situazioni, il lavoro sessuale abbia permesso a molte donne di (ri)assumere la propria soggettività al di fuori dell’istituzione del matrimonio, di (ri)configurarsi come una buona madre e di mettersi in opposizione ad altre condizioni di oppressione. Per altre, il lavoro sessuale era stato un modo per trovare una certa sicurezza economica, sociale e culturale e poter accedere a un mondo di possibilità altrimenti inaccessibili (come un percorso di laurea o l’acquisto di una casa) o, come mi ha fatto notare una volta Indianarae, può essere un modo per costruire alternative e sentirsi libere:

Ho sempre visto la prostituzione come una delle professioni che più mi ha liberato dal capitalismo e mi ha dato la totale libertà di vivere la mia vita come volevo. La prostituzione mi ha dato la libertà di viaggiare, di fare le cose al mio ritmo, di usare il mio tempo come meglio credevo. È stata una professione in cui ho scelto l'orario in cui lavorare, ho scelto il cliente con cui lavorare, ho avuto i vantaggi, le linee di demarcazione, il vantaggio di poter sempre scegliere

In questa prospettiva i luoghi di prostituzione sono degli spazi ambivalenti, spesso associati alla criminalità organizzata, ma più sicuri delle mura domestiche. Sono dei luoghi in cui si creano alternative ai lavori dominati da sfruttatori, e si concretizzano pratiche di resistenza di cura di sé che permettono una (ri)significazione di una condizione di marginalizzazione. Entrando nel lavoro sessuale, le donne attraversano le situazioni limite in cui sono inserite per motivi di genere, di razza e di classe sociale, e ri-costruiscono una nuova esistenza che, dal margine, gli permette di ridefinire il loro mondo, le loro possibilità e le loro aspirazioni.

Glossario

cis e trans sono dei termini che si riferiscono all’identità di genere di una persona. Nel caso in cui una persona si identifichi con il genere assegnato alla nascita, si sta facendo riferimento a persone cis-genere. Se le persone non si riconoscono nel genere assegnato, si fa riferimento a persone trans-genere.

travesti è un termine che nasce nel contesto latino-americano, a partire dalla rivendicazione di un insulto che veniva indirizzato a persone trans oppresse (spesso povere e/o razzializzate) che non avevano intrapreso percorsi di affermazione di genere. Ad oggi, il termine travesti si riferisce a soggettività femminili che rompono i binarismi di genere. Rinnegando il termine trans e riconoscendo i movimenti politici delle soggettività che le hanno precedute, cercano di opporsi alla prospettiva riduzionista, colonialista e patologizzante della biomedicina.


Delia Da Mosto è una delle due vincitrici della call per ricerche da raccontare Sommergibile con la ricerca Disputare narrative

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Foto ☉☉ Paola, 2018, Cagliari

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