Ogni volta che Mhina si alza da tavola ripete la stessa scena. Può avere cucinato lui oppure no, può avere scelto il menù oppure no, può avere fatto la spesa oppure no. Ogni volta che Mhina si alza da tavola, dopo cinque minuti, chiede a chi è in turno in comunità qualcosa per lo stomaco. A lui brucia la pancia.
Il corpo parla e attraverso il corpo parliamo. Da qualche parte deve essere stata formulata una legge chiara: meno abbiamo le parole per farlo, più usiamo il corpo per comunicare. Il fatto è che il corpo è uno strumento di comunicazione complesso. Le sue forme di espressione sono frutto dell’interazione tra le dinamiche organiche che lo costituiscono, i modi attraverso cui la mente organizza e dà senso all’esperienza, il modo in cui quell’enorme contenitore che è la società offre e talvolta impone un sistema di significati. Alcune esperienze e alcune condizioni rendono particolarmente critica questa interazione perché, per la loro intensità e per la loro capacità di essere spartiacque, muovono tanti e diversi piani. La molteplicità dei piani in gioco richiederebbe un linguaggio articolato e la sicurezza dei sistemi di significati in cui inserire le proprie espressioni. Forse è questa la condizione in cui si trova Mhina nella comunità che lo accoglie. Il suo status, definito dal sistema istituzionale come quello di minore straniero non accompagnato, mette in crisi la sua possibilità di articolare un linguaggio che non passi in modo quasi esclusivo dal corpo.
La migrazione è un’esperienza che travolge e stravolge l’idea che le persone hanno di sé e della propria esperienza nel mondo. Non è sconosciuta o imprevista. Anzi, la si è sentita raccontare da tutte le persone che l’hanno attraversata, la si è vissuta attraverso le loro fotografie, i loro messaggi, le loro telefonate. In molti casi la migrazione è diventata una parte centrale dell’identità della famiglia in cui si è cresciuti e del luogo in cui si è abitato. È un’esperienza conosciuta e, in quanto tale, prevista: è al centro delle discussioni collettive e intime, dei progetti di vita, dell’anticipazione del futuro che verrà. Eppure, per quanto conosciuta e per quanto prevista, quando si vive in prima persona è un evento trasformativo: non si può più tornare a essere quelli e quelle che si era prima del viaggio.
Minha vive la potenza trasformativa della migrazione in adolescenza, ovvero nel momento segnato dal passaggio dalla condizione infantile a quella adulta. Un momento in cui non si è più bambine o bambini, ma non si è ancora le adulte e gli adulti che si sarà. Un passaggio che, come tutti i passaggi di stato della vita, è sempre al limite del caos, della disorganizzazione che si vive in ogni riorganizzazione dei mondi interiori e dei rapporti con il mondo sociale. Ed ecco Minha, che vive il proprio essere adulto, per l’investimento da parte della sua famiglia e per il rito di passaggio rappresentato dal viaggio, pur essendo al tempo stesso anche infante. Infante arriva a noi direttamente dal latino ed è il frutto dell’unione della particella negativa in con fans, il participio presente del verbo fare, traducibile con avere la parola o con parlare. Un’unione che definisce l’infante come chi non ha la parola, come chi non parla.
Quando il linguaggio verbale arretra, arrivano i corpi a esprimersi. Sono corpi che provano dolori, rivivono esperienze, provano sensazioni, vivono esigenze, agiscono, organizzano lo spazio intorno a sé, entrano in contatto con gli altri corpi. Cosa vuol dire esprimersi, se non comunicare il significato che si dà alla propria condizione e, al tempo stesso, provare ad agire sul mondo intorno per modificarlo in un senso desiderato? Ecco una chiave interessante. Il linguaggio è molte cose, tra le tante è anche azione. È il tentativo di organizzare, producendo effetti di realtà, il mondo dentro di sé e il mondo intorno a sé. Quando il linguaggio è affidato al corpo, quando si fa azione attraverso il corpo, il problema vero è che perde di intellegibilità. L’uso della parola permette, per esempio nella forma del dialogo, di negoziare i significati, di correggere una prima interpretazione, di approfondire l’argomentazione. L’azione espressiva mediata dal corpo no. Più facilmente scivola in una interpretazione rigida che passa attraverso i codici di chi la osserva.
La pancia che brucia, il sonno che non arriva, il ritorno di sensazioni fisiche legate a un evento passato: sono forme espressive che gli sguardi istituzionali e professionali trasformano da significati a sintomi. Una trasformazione che segna il passaggio dal tentativo di esprimere la complessità della condizione umana, soprattutto quando questa è una condizione al limite del caos, a indicazione di uno stato patologico. Una condizione di malattia che, in quanto tale, va diagnosticata per essere trattata.
Massimo Conte e Francesco Fattori sono ricercatori di Codici. I nostri progetti più recenti con le persone minori non accompagnate sono Di’ Tu. Diritti da tutelare, P.A.S.S.I e la formazione delle tutrici e dei tutori volontari della Lombardia.
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