Temi
  • Giovani
  • Partecipazione
  • Genere
  • Inclusione
  • Comunità
  • Migrazioni
  • Lavoro
  • Scuola
  • Innovazione
  • Welfare
  • Dipendenze

Quando tutto è cominciato

  • Aprile 2020

In questi giorni difficili ci siamo chiesti quale pensiero potesse avere Codici su quello che sta succedendo. Ci siamo risposte che è ancora presto, non abbiamo avuto modo di parlarne insieme, stiamo vivendo in una dimensione più privata, viviamo condizioni molto diverse e abbiamo sensibilità differenti.
Per questo vogliamo valorizzare tutta questa diversità, componendo un racconto collettivo di come stiamo vivendo questi momenti. Sarà il punto di partenza per il prossimo numero della rivista codici404.


Quando tutto è cominciato
Rosy Nocera

Quando tutto è cominciato, il 21 febbraio, era un venerdì. Ho una memoria ferrea per i dettagli, a dispetto del loro accumulo negli anni, ma mi ero scordata di questa passione. Di solito il venerdì non è per me una giornata di lavoro da quando, ormai molti anni fa, la dedicavo interamente alla cura di mio padre, immobile in un letto per otto anni, affetto da demenza senile. Erano gonfi di fatica quei venerdì e li ricordo ancora bene. All’uscita dal reparto geriatrico l’unica cosa che potevo fare rientrata a casa era buttarmi nel letto senza parole, senza pensieri. La riduzione graduale e irreversibile delle proprie facoltà cognitive determina intorno il deserto nelle relazioni, oltre che nelle necessità primarie. E quel deserto era diventato anche mio nel non accettare di vederlo spegnersi gradualmente di fronte a me, inerme, mentre mi oltrepassava con lo sguardo nel vuoto senza il suo “Ciao come stai oggi?” “Bene? Allora sto bene anche io!”. Era la nostra frase gioco, quella che cominciava ogni nostra telefonata o incontro. Penso molto a lui in questi giorni. La sua fine è la stessa di molti che oggi lottano in una terapia intensiva contro una polmonite interstiziale che ne porta via l’ultimo respiro.
Al contrario, quel 21 febbraio era stato un venerdì di lavoro intenso nell’inseguire scadenze. Mi trovavo difronte ad un bivio pur non avendone una reale consapevolezza. Il mio corpo da mesi mi chiedeva attenzioni che non gli davo, cure e ginnastica. Diciamocelo la routine quotidiana va a dei ritmi spesso troppo rapidi e per stare nei tempi devi lasciarti indietro la zavorra. I parametri per misurare i pesi da abbandonare spesso determinano anche l’equilibrio personale e il lavoro stesso, per chi ce l’ha, diventa il vortice salvifico dentro il quale buttarsi.
Ho sempre pensato di essere ipocondriaca, non ho mai riflettuto sull’esatto significato di questa parola e della sua aderenza, limitandomi all’uso comune. La velocità dei ritmi impone anche questo: un atteggiamento sommario nei confronti dei dettagli a favore del controllo più generale della situazione. Solo oggi scopro che la mia fobia oscilla tra la iatrofobia (la paura dei medici) e la nosocomefobia (la paura degli ospedali), angosce entrambe derivanti da ferite del passato, che finalmente ne descrivono perfettamente la cornice. Così oggi mi trovo nel bel mezzo di una pandemia mondiale, in una regione in forte crisi sanitaria per la pressione sugli ospedali e la mancanza di protezioni essenziali per il personale medico. Ecco, i primi sono stati davvero i giorni più sofferenti, nascondendo un’emotività paralizzata dall’allerta e dall’attesa, di fronte a incombenze e quotidianità. Mi rifiutavo di accettare che il mondo andasse avanti ugualmente “the show don’t must go on!” Mi ripetevo, mentre intorno vivevo con enorme fatica le sensibilità e gli approcci differenti. Poi, i dati, per quanto siano affidabili, e soprattutto il tempo, grande alleato, ne ha spezzato l’angoscia dominante.
Forse questa pandemia che ci chiude in casa costringerà ognuna di noi a ristrutturare la propria vita, apprezzarne i lati belli che spesso trascuriamo, ed eliminare dal nostro vivere ciò che non ci rende felici. Questa la lezione vitale. Non mi scoraggia la reclusione, anzi non posso certo vantare nel mio repertorio precedente uscite mondane o viaggi ricorrenti, non potrei neanche permettermeli economicamente. Non mi scoraggia aver pazienza, chi mi conosce poco me ne attribuisce più del dovuto, ma è più una stoica resistenza al sacrificio che pazienza vera e propria.
E lentamente affiorano le piccole cose sepolte, i dettagli, quelli a cui non davo neanche più tanta retta, quando ero solo immersa e sommersa. Una lente d’ingrandimento rivolta su se stesse che ci inquadra nuovamente nude e senza pudori, ritornando a credere oltre che nelle proprie gambe anche nel proprio cuore. Imparare di nuovo ad ascoltare e ascoltarci. E quando, oltre all’inquinamento ambientale, anche quello acustico si attenua e quasi si azzera, spezzato solo dall’andirivieni delle ambulanze, udire quasi per caso il rumore dei propri passi. Sono i tuoi passi sull’asfalto mentre cammini nel quartiere deserto. I tuoi passi che rimbombano mentre passeggi col tuo cane e in strada non ci sono neanche le auto. Quel rumore che all’inizio scambi per una persona alle spalle che ti segue, ma ti accorgi immediatamente invece che sei tu e non te lo ricordavi perché l’ultima volta era stato tanto tempo fa. Come quella notte in cui eri rientrata a casa troppo tardi ed erano già le tre del mattino e dovevi ancora percorrere due cortili prima di arrivare al tuo portone e il rumore dei passi veloci riusciva a imbrogliare quello dei battiti fitti del cuore.
Il silenzio livido si scontra inevitabile nei giorni sui giorni col rumore incessante dei pensieri che si affollano in parecchi. Ci sono tanti consigli, per chi ne necessita, su come riempire il tempo: leggere, imparare cose nuove, svuotare il garage, pulire gli armadi. Ma se ogni tanto facessimo anche nulla? Se rimanessimo in silenzio, se ascoltassimo il nostro respiro o i nostri passi sull’asfalto e lasciassimo correre libere anche le nostre intuizioni? Potremmo scoprire luoghi inesplorati e nuovi significati, dentro e intorno a noi.
Niente sarà più come prima perché noi non lo saremo. Ognuna, a suo modo, si concentrerà sulle cose importanti. I propri affetti, certo, e con essi, la qualità delle relazioni che tessiamo ogni giorno. Allontanandole dal dover essere a tutti i costi per lasciare spazio all’eccomi come sono, pregi e difetti. Allungando le telefonate prima interrotte dai doveri, ma oggi più lungamente affettuose. Giù le maschere, siamo tutte in scena senza palcoscenico e plausi.

Che mondaccio, signor Gubbio, che mondaccio è questo! che schifo! Ma pajono tutti… che so! Ma perché si dev’essere così? Mascherati! Mascherati! Mascherati! Me lo dica lei! Perché, appena insieme, l’uno di fronte all’altro, diventiamo tutti tanti pagliacci? Scusi, no, anch’io, anch’io; mi ci metto anch’io; tutti! Mascherati! Questo un’aria così; quello un’aria cosà… E dentro siamo diversi! Abbiamo il cuore, dentro, come… come un bambino rincantucciato, offeso, che piange e si vergogna!

Quaderni di Serafino Gubbio operatore, di Luigi Pirandello


Foto ☉☉ Sulfide Mineral Marcasite – Smithsonian Open Access

Pirite, Grafite, Marcasite, Calcite, Aragonite e Quarzo sono alcuni tra i minerali accomunati dalla stessa origine: il polimorfismo ricostruttivo. È la reazione che permette la riorganizzazione praticamente completa della struttura cristallina. Questo tipo di trasformazione richiede una grande quantità di energia, non è facilmente reversibile ed è piuttosto lenta. Una metafora di quello che stiamo percependo in questi giorni.
Le immagini vengo dalla Smithsonian Open Access che un mese fa ha resto disponibili 2,8 milioni di immagini e dati in CC0.

Ricerca immagini a cura di Camilla Pin Montagnana

CC0
Condividi
  • Facebook
  • Twitter
  • LinkedIn