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Le farò sapere

Nei percorsi di supervisione che portiamo avanti in diversi contesti del Nord Italia, negli ultimi due anni ci è capitato spesso di misurarci con la difficoltà che le organizzazioni del terzo settore stanno incontrando nel reperire nuove figure educative, in sostituzione di quelle in uscita o per la gestione di nuovi servizi. Un nuovo scenario si sta configurando e provare a comprenderne le caratteristiche è necessario per tentare di individuare delle strategie di intervento.

Spesso i gruppi di lavoro che incontriamo parlano della difficoltà di attrarre persone giovani nel lavoro educativo, ci raccontano di colloqui chiusi con la frase tipica «le farò sapere», però pronunciata dai candidati o dalle candidate e non da chi effettua la selezione. Un ribaltamento interessante per chi ha uno sguardo e un ruolo esterni, ma allo stesso tempo spiazzante per chi si trova a gestire i servizi. Molto spesso, emerge la questione nei nostri incontri di supervisione, non altrettanto spesso abbiamo incontrato ipotesi convincenti nella lettura del fenomeno, capaci di rilanciare e di individuare eventuali soluzioni. È un momento di evidente difficoltà per tutto il settore socio-assistenziale, ma al tempo stesso è un momento estremamente interessante con una forza di cambiamento potenziale da osservare con attenzione.

«Essere parte attiva di un cambiamento di pensiero a livello di politiche sociali»

Questo il desiderio di una giovane coordinatrice che ho raccolto a marzo, in un percorso di supervisione appena iniziato con figure di coordinamento dell’area socio-sanitaria di una grande cooperativa bolognese. Un desiderio che fa riferimento alla possibilità di sentirsi parte di un cambiamento e di poterlo, in qualche forma, agire. Tuttavia, oggi, nelle cooperative sociali, il livello di ricambio delle funzioni apicali è molto basso, laddove nella gran parte dei casi è la generazione dei cinquanta-sessantenni a occupare posizioni di maggior rilevanza e che permettono di esercitare potere decisionale.

Così come in molti altri ambiti della nostra società, nel terzo settore non sembra esserci molto spazio per le giovani generazioni, per il loro approccio al mondo in generale e a quello del lavoro cooperativo in particolare. Quest’ultimo sembra fare fatica a costruire visioni e narrazioni che aprano a nuovi scenari, ci ricorda Luca Fazzi in un’intervista curata da Animazione Sociale.

Un mondo che, evidentemente, non riesce a esercitare un grande appeal e a cui, al contrario, potrebbero arrivare proprio dalle nuove generazioni di lavoratrici e lavoratori risposte, indicazioni e riflessioni per una reale messa in discussione, per la sperimentazione di nuove soluzioni.

Il fenomeno delle dimissioni volontarie

Una recente ricerca condotta da Euricse – Lavorare in cooperativa oggi. La voce dei nuovi professionisti della cura e il turn-over nelle imprese sociali – su oltre 1100 lavoratrici e lavoratori under 35 di due consorzi lombardi di cooperative sociali di Lecco e Sondrio, apre ad alcune interessanti riflessioni e può venirci in aiuto.

Innanzitutto, il grande numero di risposte raccolte è indice di un evidente desiderio di ragionare e confrontarsi sulle questioni lavorative, sulle condizioni dell’impiego, sul tipo di lavoro che si svolge.

Uno degli elementi che emerge dalla ricerca è legato al fenomeno delle «grandi dimissioni», come le ha chiamate e osservate Francesca Coin nel suo ultimo saggio Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita (Einaudi, 2023). In questo caso specifico riguardano giovani lavoratrici e lavoratori under 35 coinvolti in fenomeni di turn over in uscita che li ha interessati in gran parte perché arrivati a scadenza di un contratto non rinnovato (oltre il 53% di quelli coinvolti) e in una quota minore, ma molto significativa (quasi il 45%), perché si è resa protagonista di dimissioni volontarie.

Diverse sono le considerazioni che emergono quando ne parliamo all’interno delle équipe con cui ci confrontiamo, a partire dalla dimensione economica poco soddisfacente fino ad arrivare alla scarsa visibilità e riconoscibilità sociale di questo lavoro. Confermata ancora dalla ricerca Euricse: il lavoro educativo, per esempio, spesso è un lavoro invisibile, avaro di riconoscimenti positivi se non nell’ambito della relazione con i beneficiari, quando e se le cose funzionano.

Un lavoro che a volte non si comprende

Ci capita di proporre giochi ed esercizi che hanno a che fare con la descrizione del proprio lavoro a un parente, alla vicina di casa o a un bambino; qualche sguardo si accende, qualche occhio si illumina perché è esperienza comune quella di non essere compresi per il lavoro che si fa. Un lavoro che a volte viene confuso con una forma di volontariato. «Ah, ma il tuo è un lavoro?» è una frase tipica che educatrici ed educatori si sentono rivolgere.

È un lavoro che non dà grandi soddisfazioni in ambito economico, a fronte di richieste impegnative in termini di responsabilità, disponibilità oraria, carico emotivo. Un lavoro molto recentemente interessato dal rinnovo del contratto e quindi da un piccolo adeguamento salariale, ma che non riesce nemmeno a star dietro al livello dell’inflazione degli ultimi due anni. Un lavoro schiacciato dentro a una cornice incapace di valorizzare le tante figure educative esistenti, espressione di quel Welfare che da anni viene descritto come un costo da una politica svilente e da cooperative che non riescono a scostarsi dalle pratiche politiche, e tanto meno a contrastarle.

Quale direzione, dunque, in un quadro così desolante?

Immaginiamo due strade, due percorsi che nelle supervisioni si delineano o che aiutiamo a definire: uno più estremo, uno più praticabile.

Quello estremo racconta di servizi importanti o addirittura essenziali che chiudono per mancanza di operatrici e operatori e, in prospettiva, disegna uno scenario in cui le persone portano i loro problemi, le loro fragilità, nelle strade, nei luoghi di tutti, rendendo evidente quell’invisibilità che sta dentro alle strutture, quelle ferite che tanta parte della comunità abitualmente non vede. È un’immagine distopica di persone che hanno bisogno e che iniziano a ricavarsi spazi non avendone più di istituzionali, che rivendicano e a volte trovano soluzioni da sole, come l’acqua che trova i suoi rivoli, le vene dove scorrere. Già succede che comunità per minori della Lombardia chiudano e i loro ospiti siano trasferiti in altre Regioni, dove ci sono posti disponibili. Finché ci sono posti.

È uno scenario che consideriamo estremo perché insinua la possibilità che non si riescano più a prendere in carico tutte le persone che ne avrebbero diritto e bisogno e che siano queste stesse persone a richiedere con rabbia delle soluzioni. Estremo perché quando lo osserviamo ci immaginiamo cortei, persone in strada, disagio evidente e non più nascosto nelle strutture, strappi, conflitto agito e non contenuto.

Un’ipotesi di fronte alla quale le lavoratrici e i lavoratori del settore rimangono affascinati, perché si sente il bisogno di un cambiamento che viene evocato con grande frequenza, ma che sembra impossibile da realizzare. Ci si affida alla capacità di trasformazione delle persone che beneficiano dei servizi dal momento che molto spesso chi lavora negli stessi servizi non crede di poter agire, non sente di avere le capacità e la forza di cambiare. E si paralizza davanti a una possibilità di conflitto.

Lo scenario più praticabile ha invece a che fare con le parole, con un linguaggio da ritrovare, perché il lavoro sociale trovi nuove forme per raccontarsi, per farsi capire dai vicini di casa. E per uscire dalla bolla in cui solitamente tende a rinchiudersi, correndo il pericolo dell’autoreferenzialità, di svilire un linguaggio che non riesce più a evocare, riuscendo invece ad aprire spazi di desiderio.

Per questo, nell’ultimo anno una gran parte delle nostre supervisioni si misurano proprio con il linguaggio, con la costruzione di vocabolari minimi, che rimescolino le parole restituendo significati, non tecnici e non specifici, per uscire dalle parole esauste del sociale.

C’è bisogno di attingere da tutti gli immaginari, dalla letteratura, dal cinema, dai podcast, dalla musica perché c’è bisogno soprattutto di commistione, di condividere substrati culturali, incrociando riferimenti apparentemente lontani, per suscitare curiosità, per aprire spazi di riflessione inediti alla ricerca di nuove fonti di ispirazione. C’è bisogno di nutrirsi di parole nuove o di rinnovare le parole che da sempre si usano, di rivedere i vocabolari, per provare a creare nuovi terreni in cui confrontarsi ed eventualmente confliggere o comprendersi.

Parole capaci di schiudere mondi, come scelta, desiderio, soddisfazione, futuro, immaginazione, regola, presenza, rispetto, creatività, riscatto.
Parole come ponti.

Io mi occupo delle vite degli altri. Se hanno bisogno loro mi chiamano. Se non sanno qualcosa io cerco la risposta. Passo del tempo con loro – ascolto – mi sposto nella città. Spesso cerco di fare delle proposte, cerco di convincerle che cambiare può essere positivo. Ma non posso cambiare tutto. Posso suggerire e se non succede quello che immaginavo lo devo accettare. Niente è mai facile e a volte si fanno davvero dei grandi sforzi. Però mi aiuta tanto l’esperienza e poi, se ho bisogno studio, leggo e chiedo aiuto ai miei colleghi e alle mie colleghe, a chi lavora con me o a chi a sua volta aiuta. Sai, in questo lavoro non bisogna dimenticarsi di avere una vita nostra.

Un’educatrice di Genova che spiega il proprio lavoro a un bambino


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Foto ☉☉ Livia, 2019, Milano Corvetto

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