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L’avversario – intervista a Laura Pezzenati

  • Ottobre 2019

L’avversario – intervista a Laura Pezzenati
A cura di Valentina Bugli
ottobre 2019

Nell’agosto di questo strano 2019 il decreto sicurezza bis è diventato legge. Questo decreto, ideato con Salvini al Ministero dell’Interno, non nasce con lui soltanto e i suoi effetti non si esauriranno con la cessazione del suo incarico. Matteo Salvini, da mostro politico, prende e capta ciò che sono le esperienze, le preoccupazioni, le tensioni della società e le fa sue, trasformandole in parole d’ordine commestibili e sexy. Dentro al decreto sicurezza bis, la rappresentazione delle nostre paure si fa corpo e soma, permettendo a molta parte della nostra esperienza di insicurezza di essere rispecchiata e, quindi, accolta. Il decreto sicurezza bis e le parole d’ordine con cui è stato pubblicizzato, tranquillizzano e rassicurano proprio per questo: ci mettono al sicuro, ci incasellano in un “noi” diverso da un “loro”, chiudono e definiscono i confini, certo irrigidendoli, ma garantendoci in un qualche modo di sentirci sicuri. Guardando il decreto sicurezza bis non riesco a vedere solo Salvini o la classe politica oggi al potere, ma in trasparenza vedo noi, tutte e tutti noi, e ciò che della nostra esperienza si rispecchia in quelle parole. L’idea di un’intervista a Laura Pezzenati nasce proprio a partire da questa intuizione, che però non sapevo esattamente dove ci avrebbe portate.

Filosofa, tecnica della riabilitazione psichiatrica, danzaterapeuta, «la Pez» incontra e accompagna pazienti, studenti e studentesse, operatori e operatrici in percorsi di cura, crescita personale e formativa che, sempre più spesso, portano al centro delle proprie criticità una sensazione di insicurezza e di mancata tutela della propria esperienza nel mondo.

VB: Mi sono detta, cavoli, la Pez vede un sacco di pazienti. Vede transitare come danzaterapeuta, come TeRP*1, come formatrice, tantissime persone, le più diverse possibile. Persone che il tema del sentirsi insicure le portano in altri modi, sotto altre forme…

PEZ. La prima cosa che mi viene in mente è proprio una persona in particolare. Lei è una donna sui 60 anni, ha una diagnosi di disturbo bipolare grave e, quando si scompensa sviluppa un delirio paranoide. Il suo delirio è questo: lei pensa – ed è convintissima di questo pensiero come tutte le persone che delirano – che in sua assenza le persone, le persone, entrino in casa sua e spostino cose, rubino cose, le facciano dispetti… Teme che le rubino perfino i suoi dati personali. Il nemico è quindi nel telefono, è nel computer. Di solito questo tipo di delirio e di paranoia viene sviluppato da persone più giovani. Questa signora, invece, è strana: ha 60 anni e usa lo smartphone da pochissimi anni. Io sono la sua Tecnica per la Riabilitazione Psichiatrica e insieme passiamo tanto tempo delle nostre sedute a lavorare sul suo telefonino. Me lo mette in mano chiedendomi di fermare l’accesso dei nemici: acconsento all’utilizzo dei miei dati, non acconsento, tutte quelle robine lì. La privacy, non la privacy, il backup. Ora, questa mia paziente è un target specifico con una facilità a trasformare le cose in modo ancora più paranoide di come le vengono servite. Certamente queste cose lei le sente alla televisione, e trasformandole nella sua testa diventano ancora più terrorizzanti. Possiamo però prendere questa mia paziente come esempio di ciò di cui vogliamo parlare, proprio perché è estremo, perché questa signora ha una malattia che le consente di sviluppare insicurezza più di tutti noi. Ovviamente lei pensa che responsabili di tutto sono gli stranieri, questi negri di merda, testuali parole, attaccandosi al nemico facile e trasmesso, perché da un lato è facile e dall’altro identifica il nemico. Il nemico è quello lì. Il nemico so chi è. Quindi, se io mi difendo da quella roba lì, in qualche modo posso immaginare che sarò al sicuro. Noi sappiamo che così non è, ovviamente.

VB: Dentro questa logica penso: l’essere umano ha bisogno della sicurezza. Se né nello spazio pubblico né nello spazio privato la può trovare, è forse anche normale che ascolti tutta questa paura, questa voglia di chiudere, di irrigidire, di autorizzare o non autorizzare l’altro a passare. Cosa implica tutto ciò a livello di psiche, a livello della persona? Quanto questa visione influenza la vita quotidiana di noi soggetti, immersi in una società che ci offre una retorica del pericolo completa, mettendo al di fuori di noi tutte le possibilità di sicurezza?

PEZ: Secondo me moltissimo. Sto pensando in questo momento al nostro funzionamento. Penso al sistema nervoso, proprio, non tanto e non solo al sistema nervoso centrale, ma al sistema nervoso autonomo. Negli ultimi anni si sono sviluppate una serie di teorie che si chiamano bottom-up, anziché come sempre dall’alto verso il basso, quelle top-down. Dal basso verso l’alto. Queste sono teorie interessanti e in particolare ce n’è una che a me piace molto, la teoria polivagale, di questo signore, Stephen Porges*2, che è un genio secondo me. Questo signore è uno scienziato che si è messo a lavorare sul nostro sistema nervoso e ha scoperto la seguente cosa: noi siamo abituati a pensare al nostro sistema nervoso autonomo come simpatico e parasimpatico. Il sistema nervoso simpatico è quello che attiva, ovvero attacco/fuga. Il sistema parasimpatico è quello che dice calmati, stai tranquillo… Questo è quello che noi abbiamo sempre saputo del nostro funzionamento. Porges cosa dice? Dice che tutto questo è vero, ma che il parasimpatico ha un’ulteriore specializzazione che dipende dal nervo vago. Da qui teoria polivagale. Il nervo vago non ha un unico ramo che funziona così, calmati. Ma ne ha due: ce n’è uno che è molto antico, molto arcaico, che ci fa assomigliare ai rettili, per così dire. È un ramo, semplificando molto, che ci fa dire “ho così paura che faccio finta di essere morto”. Mi blocco. Se io non posso attaccare, se io non posso fuggire, se non posso attivare il simpatico, scatta il parasimpatico primitivo che dice Boom!, mi blocco. Faccio finta di essere morto, nell’idea che il predatore vedendomi morto ed essendo i predatori interessati al movimento della preda, mi lascerà stare. Cosa che accade nella natura. Che cosa accade però nella natura che non accade invece a noi esseri umani? Una volta che hai fatto finta di essere morto, una volta che il predatore se ne va, un secondo dopo l’animale si scrolla, attiva il simpatico e se ne va. Questo a noi umani non succede. Tendiamo a rimanere bloccati dentro al faccio finta di essere morto. Un aspetto più depressivo, passami, collassato, in cui non ho più energia. Rimango lì, in qualche modo. Per noi il passaggio non è immediato. L’altra cosa che scopre questo signore, che è ancora più interessante, è relativa alla parte mielinizzata e quindi più evoluta del nervo vago. Che è quella, udite udite, sovra-diaframmatica. Il pezzo mielinizzato si riferisce ai nervi cranici. E quindi cosa fa? Controlla la mimica facciale, l’udito… Questa parte del nervo vago si disattiva completamente in momenti di non sicurezza e si attiva invece, ed è molto sfumata e complessa, in momenti di sicurezza, consentendo la relazione intersoggettiva. Questa cosa la trovo stupenda perché ci dice che la relazione intersoggettiva è possibile solo in momenti in cui ci sentiamo sicuri, ovvero in cui il nostro sistema simpatico e parasimpatico, quelli di prima, sono quieti. Solo in questo caso si può attivare quest’altra parte di noi che è quella che ci consente di stare in relazione tra noi esseri umani, in cui siamo nella condizione di fiducia, di sicurezza reciproca, di gioco. Il sistema simpatico è attivo, ma è attivo in una quantità e con una qualità che permette che il gioco non si trasformi in aggressività. Il sistema nervoso parasimpatico è attivo in un modo che mi consente di essere tranquillo senza essere svenuto. È stupenda questa cosa.

Nella teoria del trauma è proprio tutto questo che va in tilt. Per tenere a bada o situazioni di iper attivazione simpatica, o di iper attivazione parasimpatica (freezing, collasso, ecc.), cosa fa la nostra mente? Dissocia. E quindi cerca di contingentare quanto più può, cosa che implica un abuso infinito di energia psichica. Per dirla semplice: contingentiamo parti della nostra memoria procedurale da qualche parte, in modo tale che non venga a romperci i coglioni. Questo lavoro occupa grande parte del nostro impegno psichico e grande parte della nostra energia. In più non è sufficientemente sicuro. Perché come sappiamo arrivano flashback, ci sono dei trigger point, dei nodi che vengono attivati da cose minime, che in un attimo ci risbattono là. È un sistema di sicurezza assolutamente fallimentare, perché non serve a renderci più sicuri. Questo sistema di sicurezza è un sistema di sicurezza rigido e contingentato. Questo già ci dice tanto di quanto ci sta capitando e della presunzione di offrire sicurezza all’umanità attraverso l’erezione di muri, di situazioni chiuse…

VB: Parliamo della Danzaterapia, che è una delle tue altre parti, sei un po’ polivagale anche tu! Nel setting della Danzaterapia Clinica, noi danzaterapeute e danzaterapeuti abbiamo il compito di garantire tempi e spazi che permettano ai pazienti di sentirsi sicure e sicuri, per poi compenetrare, integrare e incontrare l’altro. E quindi mi chiedo, rispetto a questo ambito come possono le esperienze che incontri illuminare dei pezzettini di quello che stiamo dicendo? A me sono venute in mente tantissime cose rispetto a ciò che metto in campo come danzaterapeuta. In questi tre anni di formazione alla Lyceum Academy*3 l’importanza della relazione è ciò che forse più mi avete passato. Come entrare in relazione con me, con i diversi aspetti di me, anche quelli più complessi e difficili da guardare, e come entrare in relazione con l’altro in un modo non giudicante, dove non c’è giusto e non c’è sbagliato? E quanto invece le etichette appiccicate agli esseri umani in questa epoca storica ci raccontano storie diverse: regolare/irregolare, con o senza documenti, persona che può ottenere un permesso umanitario o persona che non può averlo. Quali elementi della metodologia della Danzaterapia Clinica e della pratica danzaterapeutica possono aiutarci a scendere più nel profondo di questa riflessione?

PEZ: Parto da qua. Parto dalle esperienze di Danzaterapia che io faccio, non a te che hai scelto di fare questa formazione, ma quelle che faccio agli studenti e studentesse universitari della Facoltà di Tecniche per la Riabilitazione psichiatrica, ai quali viene imposta, poveri cristi, anche la mia lezione di Danzaterapia. L’ambito appunto è quello del Tecnico di Riabilitazione psichiatrica, terzo anno. Quindi, sono persone già pronte per andare a fare questo mestiere, che è un mestiere che vuole occuparsi di persone con una grave patologia psichiatrica. Cosa succede: quando io arrivo in queste classi universitarie trovo quasi tutti giovani, anzi giovanissimi, 20/22 anni. Tendenzialmente bravi studenti se sono arrivati fino a lì. Arrivano e sanno, perché glie l’avranno detto, che devono ballare, e già sono terrorizzati. A proposito di sicurezza, tu li vedi che sono tutti belli inchiodati. Io me ne frego e li faccio ballare. Sì, li ascolto prima, così li faccio un po’ parlare, si presentano, poi io dico sì, adesso basta, balliamo. La cosa bella, che succede sempre e che in qualche modo è ovvia da un lato ed è sorprendente dall’altro, è che partono con dei pre-giudizi agghiaccianti che hanno a che fare con diverse cose interessanti per il nostro discorso. Testuali parole, perché io leggo le loro relazioni e da lì ti cito: a) Io con il corpo non sono molto a mio agio; b) io il mio corpo non lo considero tanto; c) io sono rigido. Che fa anche un po’ ridere perché è come se io non fossi il mio corpo, è come se il mio corpo fosse un oggetto che mi è stato dato, messo lì così che io non guardo tanto, lo lascio lì così. Questo ha a che fare proprio con la relazione tra me e il mio corpo, che è come se non ci fosse. Per non parlare del tema me, il mio corpo e il corpo degli altri. Il corpo degli altri per i più non è nemmeno immaginato. È immaginata la relazione scolastica che si è creata tra di loro, che ovviamente è una relazione che rifugge completamente dal corpo: passami gli appunti, i gruppetti, le varie menate di classe. Il corpo è totalmente escluso, non c’è. Sono seduti, come se sedersi non fosse un’azione che ha a che vedere con il corpo, e se la menano, gli esami non gli esami, gli appelli, gli appunti, lo studio, ecc. Il lavoro che io faccio con loro è molto graduale, molto piano piano, conoscendo i miei pollastri, e mano a mano scoprono che non è vero niente di tutto ciò che avevano pensato. Ci troviamo di fronte all’idea antica come il cucco che la mente e il corpo sono separati. È come se per questi studenti ci potesse essere finalmente un attimo di integrazione, la loro mente e il loro corpo lavorano insieme e, loro proprio dichiarano, quei pensieri se ne vanno, i pensieri sono quei pensieri, vanno via, quelli di prima. E si concedono un momento di gioco, di spasso, di relazionalità tra di loro, scoprendo che possono lavorare con persone che gli stavano sul cazzo fino a un momento prima perché fanno altre cose da quelle immaginate, e questo è sorprendente. Tutto ciò accade in una giornata, anche meno di una giornata. Un modulo dura 10 ore, non ballano tutto il tempo, stiamo parlando di un tempo molto piccolo, anche se molto mirato e guidato, di lavoro corporeo. Un lavoro mirato e guidato è molto importante perché dà sicurezza. La sicurezza è data dalla conduzione, parlando della danzaterapia, dalla gradualità e dalla fiducia del conduttore che i ragazzi e le ragazze, nella fattispecie, ma questo vale anche per i pazienti, ce la possono fare. Perché se io conduttore non avessi questa fiducia, non si comincia neanche. Se io dovessi dare retta (sul piano cognitivo) a tutti i dubbi che mi vengono proposti, non partirei neanche e loro sarebbero ben contenti. Ah ci guardiamo un film sulla Danzaterapia, che bello!

VB: Ciò che a me salta all’occhio, è che, in realtà, sono proprio tutte le persone a fare sempre più fatica, a sentirsi più sole. Sto pensando a quanto ci risulti faticoso il passaggio di uscire, di incontrare l’altro, che non necessariamente conosciamo, magari in uno spazio pubblico che non percepiamo come sicuro. A livello corporeo quali sono gli aspetti che ci illuminano questi passaggi e che tu vedi ricorrere maggiormente?

PEZ: Sto pensando a una serie di frasi fatte che definiscono a mio parere la cultura dell’attualità. Me ne vengono due in particolare. Volere è potere. Mi spezzo ma non mi piego. Queste sono le idee più diffuse che io sento con le mie orecchie, dai miei pazienti. Più uno è fragile e più si appoggia a cose del genere. C’è l’idea, che è dentro di noi, che più mi irrigidisco e più divento forte. Più sono aggressivo, prima degli altri, e più è facile che me la caverò. Più mi gonfio e più sarò rispettato. Il rispetto, questa parola agghiacciante, no? Come se il punto fosse questo. In realtà il punto è esattamente l’opposto di questo. Ma l’idea è questa: se io mi piego anziché spezzarmi sono un coglione. Se io voglio e fortissimamente voglio e non posso sono un coglione. Partono questi auto-giudizi su noi stessi che ci svuotano ancora di più e ci rendono preda di questi slogan, che appiccico come l’etichetta della marmellata e faccio miei, per poi scontrarmi subito dopo con l’impossibilità di tenere fede a questi slogan. Se voglio tenere fede agli slogan ma ogni minuto mi devo piegare anziché spezzare, perché il capoufficio così, la commessa cosà, io continuo a nutrire il mio senso di autosvalutazione, che mi porta a rinforzare ancora di più quegli aspetti di irrigidimento che ritengo utili. È molto difficile fare il click, assumerci la responsabilità della nostra fragilità come punto primo di partenza per diventare forti… Perché preferisco mantenere un’immagine di me rock&roll piuttosto che dire, cazzo questa roba non riesco a farla. Non posso. E sembra che se lo dico sono il più sfigato della terra. C’è un libro, bellissimo, che è L’Avversario di Emmanuel Carrère*4, scritto da questo scrittore francese che prende un fatto di cronaca realmente avvenuto e ci entra in dialogo, mettendo in gioco anche se stesso. In questo libro, racconta di questo signore che, pur di non entrare in contatto con i suoi aspetti depressivi – uguale con le sue fragilità – si costruisce un mondo fittizio, a proposito di fake news, che deve mantenere e sostenere fino all’estremo e che lo porta a uccidere moglie, figli, genitori, pur di non fare cascare il velo di Maya, come direbbe Schopenhauer, o Nietzsche dopo di lui. Perché se casca quel velo, se sotto al vestito non c’è veramente niente, sono proprio cazzi. Questo è terrificante! Poi lui viene arrestato, finalmente, ma proprio non ce la fa, e anche in galera si crea un altro personaggio, quello del pentito, del religioso e crea un seguito spaventoso attorno a sé, attorno a un’altra idea che ha di sé. Il punto è proprio questo. Non essere ciò che si è, ma essere l’idea che vorrei essere di me e dell’altro.

VB: Questa riflessione mi porta al tema della conduzione, della facilitazione, del ruolo di chi costruisce dispositivi dentro cui le esperienze possono fare esperienza – anche protetta – di sé e dell’altro. Quali sono secondo te gli elementi fondamentali da garantire perché dentro una cornice le persone possano fare esperienza di sé?

PEZ: Sicuramente la costruzione di un setting che sia quanto più possibile modulabile, rispondente alla funzione genitoriale, in qualche modo. Un setting che sia sufficientemente accogliente e sufficientemente regolato. A seconda di chi ho davanti, devo sentire e comprendere qual è la quantità di accoglienza e la quantità di regolazione che devo mettere in campo con quel gruppo, con quelle persone o con quella persona se l’intervento è individuale. Un luogo che possa essere un luogo quanto più possibile sicuro, ma sicuro dentro la mente del conduttore, oltre che nei fatti. Potrebbe essere anche un prato, non è detto che debbano esserci porte o finestre, l’importante è che sia percepito come sicuro da chi lo ritiene il proprio spazio di lavoro. Quindi, uno spazio all’interno del quale le persone si possono muovere, oppure no, decidere di non muoversi, perché anche questo deve essere garantito. E un tempo. Tempo che abbia un dispiegarsi che abbia senso. Quindi non casuale. Il punto fondamentale è che non ci sia casualità ma che ci sia cura da parte del terapeuta. Questo è il lavoro del terapeuta.

Del setting fa rigorosamente parte il conduttore. Sono intercambiabili. Qualcuno disse, ora non ricordo più chi, che il setting prima di tutto è nella mente del terapeuta. Se il terapeuta non ce l’ha nella sua mente, corpo, cuore, tutto, il setting non esiste.

L’altro ingrediente è quello della gradualità, che si può dire anche come non forzare mai. Perché altrimenti è come se ci fosse la presunzione che è il terapeuta che sa dove il paziente deve andare. Questa è una puttanata mondiale. Solo il paziente sa dove può andare. Lui non sa di saperlo, ma lo sa. Freud ha parlato a lungo della resistenza al cambiamento che sicuramente è dentro al paziente, ma può essere anche una risposta a ciò che il paziente sente che il terapeuta vorrebbe da lui. In questo la nostra metodologia è molto attenta, è proprio il fulcro della metodologia nella Danzaterapia Clinica: osservazione costante tra ciò che accade fuori da noi e ciò che accade dentro di noi. Perché magari io come terapeuta vorrei tantissimo spingere ma se osservo che in scienza e coscienza, questo non è possibile per il paziente, non lo devo fare e mi devo smazzare tutta la frustrazione… Questo è il lavoro interno del terapeuta, è importantissimo perché evita situazioni di potenziale pericolo.

Perché è così importante ciò che stiamo dicendo? Perché noi offriamo questo spazio e tempo? Perché il paziente possa pian piano imparare a sentire che va bene così com’è e che, quindi, magari, ogni tanto può permettersi di mollare il giudizio negativo su di sé. Perché altrimenti, e questo vale per tutte e tutti noi, il paziente è mosso dall’idea che deve avere di sé l’avversario. L’avversario è dentro di noi. E l’avversario fa questo. Ci fa credere che noi dobbiamo essere in un certo modo. Se io pian piano trovo il modo di costruire ad hoc, perché poi ogni persona è diversa, una situazione dentro cui il paziente possa sentirsi così com’è, sempre di più, allora il lavoro parte e si sviluppa.

VB: Mentre parlavi pensavo che siamo per forza esposte ed esposti al rischio perché non sappiamo come l’altro può reagire, e forse è questa la cosa che ci possiamo allenare di più ad accettare, a rispettare, a non controllare…

PEZ: A dare per scontato… che la vita è un rischio! Può essere più o meno calcolato! Certo è che se io non so quali sono le mie fragilità – e quindi le mie risorse, perché sono le due facce di una stessa medaglia – il rischio mi sembrerà sempre abnorme rispetto alla possibilità di fronteggiarlo. E quindi io penserò che abbia bisogno di armi, muri, respingimento dei migranti, perché altrimenti è troppo. Ma in realtà non è così. Guardandola dal punto di vista del terapeuta, però, questo è il punto di partenza della nostra società. Io non dirò mai a un paranoico ma figurati che cagata stai dicendo! Perché quello, il sintomo, mostra il luogo e il tempo di collocazione del paziente in quel momento, quindi io devo averne grande considerazione. Grande rispetto. Quella è la fotografia di quella persona in quel momento lì.

Le persone hanno paura. E questo è vero. Noi non possiamo dire, ma va figurati, non c’è niente di cui avere paura. Come no? C’è un sacco di roba di cui avere paura, l’inquinamento, la mancanza di lavoro, la precarietà abitativa… Poi dipende da come rispondo a questo. Salvini risponde così e la gente gli crede. Perché? Perché non c’è nessun’altra risposta. Se hai bisogno di qualcuno che ti dia un’indicazione, lui dice questo, con linguaggio semplice, comprensibile, accogliendo le nostre paure. Il linguaggio di Salvini arriva prima al corpo che alla mente!

VB: Anche nelle istituzioni dove ci sono ruoli che stanno facendo fatica, nel lavoro educativo e nelle scuole, pensando non solo a educatori o docenti ma anche agli alunni, i ragazzi e le ragazze, quanta paura e quanto timore esprimono… Dal riconoscimento di queste paure, abbiamo visto proprio in queste settimane, possono partire movimenti di lotta di grande forza. A tutte queste espressioni è opportuno dare valore se si vuole agire il cambiamento. Deve essere parte del nostro lavoro. L’altro pezzo può essere quello di concedere a tutte e tutti, conduttori compresi, di fare esperienza. Di costruire il proprio giudizio e il proprio pregiudizio, di navigare nei nostri stereotipi, ma essere capaci di stare in ciò che emerge dal momento, a garanzia non di chiusura o irrigidimento ma della possibilità di cambiamento e scoperta.

Pez: A proposito del giudizio, utilizziamolo come un timone. Ma non basta solo quello! Non costruire la realtà sulla base di quello! Altrimenti è un casino. Perché è proprio come prendere una deriva che si appoggia solo al pensiero e si dimentica di tutto il resto. Mi viene in mente quel bellissimo film che è Inside Out, chi in qualche modo tra le emozioni risolve la situazione, è Tristezza. Cosa vuole dire? Tristezza è quando io mi concedo di prendermi cura delle mie fragilità. Questo è il cammino. Altrimenti siamo fottuti! Ma fottuti veri! Beh, potremmo forse trovare una formula più elegante di questa per chiudere, ma nella sostanza, poi, è così.


*1
TeRP è un acronimo che sta per Tecnico della Riabilitazione psichiatrica. È una figura professionale presente nelle strutture riabilitative. Chi opera come TeRP collabora con gli altri operatori nell’individuazione dei principali bisogni della persona in riabilitazione, riconoscendo le aree di funzionamento su cui è opportuno e prioritario incentrare l’intervento

*2
Stephen W. Porges è “distinto scienziato universitario” presso il Kinsey Institute della Indiana University Bloomington e professore nel Dipartimento di Psichiatria presso l’Università della Carolina del Nord

*3
Lyceum è nata nel 1999 e offre opportunità formative nel settore delle terapie espressive, quali arteterapia, danzaterapia e laboratori artistico-esperienziali.https://lyceum.it/

*4
Carrère E., L’Avversario, 2013, Adelphi Milano


Immagine dal Museum of Internet

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