Da qualche anno mi occupo di psicolinguistica, anzi, di psicopragmatica. In parole povere, applico i metodi sperimentali della psicologia alla comunicazione umana, specialmente a quella verbale indiretta: tutti quei casi in cui una persona dice (letteralmente) una cosa intendendone (indirettamente, appunto) un’altra. Questo, agli occhi di molte persone laureate in Lettere, Lingue o Linguistica, vuol dire essere passata al lato oscuro, alle scienze più dure, più quantitative. È, infatti, diffusa la convinzione, nella popolazione generale ma anche in ambito accademico, che i metodi quantitativi e le scienze dure, siano necessariamente forieri di maggiore oggettività. Come racconta egregiamente il manuale di metodologia di Piergiorgio Corbetta, non si pongono soltanto l’obiettivo di comprendere meglio uno stato di cose, ma di spiegarlo e, possibilmente, di modificarlo.
Avendo iniziato a studiare le difficoltà comunicative nello Spettro Autistico, questo approccio così (idealmente) pulito e operativo, basato sul dato e orientato all’intervento, mi seduceva al punto da abbandonare le scienze umane per avvicinarmi alla ricerca clinica. Questo tipo di studi prevede protocolli che definiscono il tipo di ricerche da condurre, la popolazione target, i criteri di inclusione ed esclusione dal campione, i dati sociodemografici da considerare, le variabili che ha più senso controllare e inserire nei modelli statistici come variabili indipendenti, i design sperimentali possibili (quanti materiali creare, quali fattori variare per quali condizioni controllate) e, ovviamente, l’obbligatoria presenza di un gruppo di controllo di soggetti non appartenenti alla popolazione target.
Tutti questi elementi sono fondamentali per controllare e ridurre al minimo i bias, cioè quelle distorsioni che allontanano chi fa ricerca dalla ‘verità’ su un dato fenomeno, per errori o imprecisioni nella metodologia o tendenze umane ad alterare o interpretare erroneamente il fenomeno in esame. Mi rendevo conto che avrei dovuto lavorare con persone appartenenti al gruppo che volevo studiare, ma questo, più che spaventarmi, mi sembrava dare un senso al mio studio, rassicurata da questa mole di standardizzazioni metodologiche.
In realtà, il dialogo con le comunità studiate è pressoché minimo nelle scienze biomediche. La voce delle persone che partecipano agli studi, escluse dai contesti in cui la comunità scientifica si riunisce, riflette e comunica i risultati delle ricerche, si perde completamente, a meno di non immergersi nei social network e cercare un contatto con le comunità, in tempi e modi che lo permettano realmente. È quello che ho fatto, attorno alla metà del mio dottorato, spostando di parecchio le mie solidissime convinzioni originarie.
Chi studia l’autismo sa bene che in principio, nel 1985, dal team di Baron-Cohen a Cambridge si diffuse l’ipotesi di un deficit universale dell’empatia. Dentro e fuori dall’accademia, questa ipotesi ha fatto sì che si diffondesse uno degli stereotipi più lesivi sulla popolazione autistica: che non sia emotivamente empatica. In realtà, la difficoltà riguarda piuttosto la sfera cognitiva dell’empatia: la capacità di inferire desideri, intenzioni e stati mentali altrui, specie se non esplicitati. L’empatia cognitiva è rilevante quando cerchiamo di comprendere fenomeni non letterali, come metafore, umorismo, ironia, atti linguistici indiretti come le richieste indirette, al centro della mia ricerca di Dottorato. Ricerca in cui, in realtà, le persone autistiche preadolescenti che ho testato hanno capito le mie richieste indirette ben oltre le attese.
Se il bias neuro-normativo non fosse così radicato, questi risultati non giungerebbero inaspettati nel 2022. Infatti, non solo la difficoltà nell’empatia cognitiva non è comunque universale in autismo, ma anche nella popolazione neurotipica l’empatia è caratterizzata da una grandissima variabilità individuale. Una certa inerzia della comunità scientifica, tuttavia, ha fatto sì che, ancora negli anni 2000, non solo si parlasse del deficit di empatia in autismo, ma anche che se ne parlasse in un modo che oggi non esito a definire, con Monique Botha, disumanizzante.
Il cambio di prospettiva non è stato immediato, per me. Sono serviti i risultati del mio primo studio, da cui non emergevano differenze tra adolescenti autistici e neurotipici nella comprensione di richieste indirette. Sono servite un’immersione prolungata nelle comunità autistiche online su Instagram e Twitter, la lettura di svariate autobiografie di persone, soprattutto donne autistiche. Infine, è servita la scoperta dei Disability Studies – e dei Critical Autism Studies in particolare.
Già nel 2012, Damian Milton aveva formulato una teoria per tenere conto di un dato aneddoticamente confermato da qualunque persona autistica adulta si esprima su questi temi online. È vero che le persone autistiche hanno delle difficoltà a comprendere le persone neurotipiche, ma anche le persone neurotipiche non sembrano avere ottime abilità di teoria della mente, quando interagiscono con persone autistiche. Questo suggerisce che le difficoltà descritte in letteratura non siano dovute a un deficit presente nel neurotipo autistico, ma ad un problema di comunicazione tra neurotipi: il problema della doppia empatia. Nel 2021 sono arrivate le prime conferme empiriche ad opera di Gemma Williams. Se le persone autistiche (ma anche neurotipiche) parlano tra di loro, si capiscono meglio rispetto a quando parlano con persone di diverso neurotipo.
È così che è nata la mia ricerca nella ricerca, supportata dalla call Soglie. Ho riletto l’intera letteratura sul tema della teoria della mente e della comunicazione indiretta in autismo attraverso questa lente. Gradualmente, sto cercando di contribuire alla costruzione di una nuova letteratura empirica che testi, finalmente, la teoria della doppia empatia. Infatti, fino a qui, gli studi teorici di Milton e colleghi non sono pressoché mai stati presi in considerazione dalla comunità scientifica dominante. Accade perché questa è prevalentemente neurotipica, nonché radicata nella convinzione della presenza di un deficit unidirezionale. Ma non è solo questo il problema.
Guardando alle radici di questa questione, appare evidente come la popolazione autistica non sia mai stata reale soggetto di ricerca, ossia protagonista e co-produttrice della conoscenza che la riguarda. Anzi, come spesso accade proprio per la natura così rigida e impersonale della ricerca clinica, è sempre stata oggetto passivo di studio. Inconsapevole dei reali contenuti del – sovente incomprensibile – “consenso informato” fornitogli quando partecipa alle azioni di ricerca. Inevitabilmente relegata nel ruolo di target sperimentale, ignara dei risultati degli studi a cui si presta. E, soprattutto, invariabilmente accompagnata dalla pietra di paragone della popolazione neurotipica, da cui si osserva sempre e quasi soltanto quanto e come essa differisca.
Non sembra possibile liberarsi di questa impostazione finché chi fa ricerca clinica fingerà di poter studiare altre persone in maniera oggettiva, scomparendo dall’equazione. I bias, lo sa bene chi studia scienze cognitive, sono ineliminabili. Cercare solo di limitarli è una strada fallimentare in partenza. Le scienze sociali e la riflessione comunitaria mi hanno insegnato che si possono soppesare e dichiarare le proprie caratteristiche individuali, il proprio posizionamento, non solo scientifico, rispetto a un tema. E che fare ricerca su persone autistiche, da persone neurotipiche, è un posizionamento ben preciso e non trascurabile.
Eleonora Marocchini
Foto ☉☉ Simone Deidda, Bologna