Caterina di Paolo è coordinatrice editoriale e art director di Edizioni Tlon. In questa intervista ci porta dentro al libro Dopo il lavoro. Una storia della casa e della lotta per il tempo libero di Helen Hester e Nick Srnicek. Ispirandosi alla sua ricerca iconografica che ha dato origine alla copertina, Caterina ci racconta la relazione intrinseca tra tecnologia, casa, lavoro domestico e tempo libero e come questo forte intreccio si sia sviluppato fino a quello che oggi viviamo. Attaverso le immagini, vi portiamo in questo saggio che traccia una via femminista e comunitaria per ripensare le nostre abitudini di vita.
Frequento abitualmente vari archivi online: ad esempio quello del Met Museum, che ha digitalizzato gran parte della collezione; o quello della New York Public Library, che ha risorse di genere più vario, rispetto al Met più legate alla contemporaneità. Faccio sempre un giro anche su Wikimedia Commons che raccoglie un po’ di tutto. Se sai bene cosa cercare lì puoi trovare qualcosina.
Per la copertina di Dopo il lavoro ho subito pensato a Norman Rockwell e all’immaginario illustrato della casalinga tipico anni Cinquanta. All’inizio avevo trovato un’illustrazione molto bella, non di Rockwell, ma di un altro illustratore americano dello stesso periodo: c’era questa donna con il grembiule che stava imbronciata davanti a una montagna di piatti. In qualche maniera evocava il concetto del lavoro casalingo, del lavoro di cura.
Sarebbe però stata una lettura un po’ superficiale, perché Dopo il lavoro non parla del lavoro di cura in senso stretto (e di quanto sia stancante), ma si concentra sulla bugia legata al lavoro di cura: come la tecnologia e la dedizione al lavoro domestico siano state trasmesse quasi come delle aspirazioni, in particolare delle donne. Ho pensato che dovevo cercare non una donna incazzata di fronte ai piatti da lavare, ma una donna felice dei suoi elettrodomestici.
Ho dunque dedicato molto tempo della mia ricerca iconografica alle pubblicità di elettrodomestici. Moltissime delle immagini che ho trovato non avevano al centro il prodotto, ma una donna. Non sono così diverse da quelle che vediamo ancora oggi nella pubblicità, in cui le case hanno questa luminosità innaturale e le persone sono talmente felici di pulire i pavimenti da danzare e saltellare. Un’altra caratteristica ricorrente delle immagini pubblicitarie era il sottotesto del passaggio generazionale dalla madre alla figlia. Figlie che, spesso usando gli stessi elettrodomestici delle madri, simboleggiano un passaggio di consegne dello stile di vita promosso dalle pubblicità.
Per queste ragioni ho scelto questa immagine di copertina. Mi piace anche perché mi permette di creare un dialogo tra la prima e la quarta di copertina, cosa che cerco sempre di fare. Prima vedi la copertina e poi la quarta, che aggiunge un ulteriore significato. C’è il frigorifero e c’è questa casalinga perfetta, vestita tutta elegante, con i capelli in ordine, grandi orecchini e tacchi, che beve il suo bel bicchiere di latte appoggiata a questo frigo gigantesco, aperto e pieno di leccornie. Sul retro, invece, c’è una bimba che nella postura, anche solo nella postura, mostra una gioia composta. Una gioia elegante, una gioia non di marachelle. La mamma mostra alla bimba la grande bellezza e comodità di avere un frigorifero, di godersi insieme questa pausa appoggiate a questo macchinario che ha facilitato la vita delle donne.
Per questa collana di Tlon creo sempre un altissimo contrasto tra il colore di fondo e il titolo, l’immagine deve essere in secondo piano rispetto alla gerarchia della lettura. Per creare questo effetto, tratto in bitmap le immagini: è un formato che le rappresenta sintetizzate in una griglia di pixel. Questo trucco grafico aiuta molto, perché lavorando in questo modo le immagini le loro differenze si minimizzano: posso quindi usare materiali iconografici molto diversi tra loro. Ad esempio, in un libro precedente ho usato un quadro di William Blake, ben diverso da una pubblicità anni Cinquanta nel linguaggio visivo: il formato bitmap però li ha resi più uniformi visivamente.
Nella ricerca ho trovato delle immagini diversissime tra loro. Ci sono le immagini spaventose di inizio Novecento in cui si vedono una donna che lava i panni nelle rogge, una casalinga londinese che fa le pulizie a mano o altre donne che tagliano la legna. Sono immagini veramente sconvolgenti se si pensa a quanto lavoro, a quanta fatica vivevano! Visivamente c’è una grandissima distanza tra la donna che si spacca la schiena tagliando la legna rispetto a quella, fortunata e divina, che ha un grandissimo frigorifero su cui appoggiarsi con la sua bambina, mentre si beve un bel bicchiere di latte, che, per inciso, è pastorizzato e fresco.
Quando si dice che un’immagine parla più di mille parole io non ci credo tanto. Penso che forse le immagini parlano più di mille parole, ma lo fanno in modo molto meno codificato e controllato: le immagini sono misteriose, multiformi nel loro sembrare chiare. Proprio per questo dobbiamo fare attenzione quando le guardiamo: hanno dei significati condivisi in qualche modo inconsci, non chiariti né completamente definiti. Ad esempio, vedendo quelle immagini noi diamo per scontato che il soggetto sia una donna, che ci sia una casa e che questa abbia una data forma, il suo frigorifero, uno o più televisori, la lavastoviglie, l’aspirapolvere.
Il punto che gli autori Hester e Srnicek giustamente sollevano è che nonostante i progressi tecnologici continuiamo a spendere le stesse identiche ore che si spendevano prima nella cura della casa, perché gli standard si sono alzati (il cosiddetto paradosso di Cowan). Prima il livello medio di igiene era diverso: i vestiti non si lavavano così tanto, noi non ci lavavamo così tanto, i pavimenti non si lavavano così tanto, c’erano meno oggetti tecnologici da gestire, quindi meno tempo dedicato alla manutenzione. Perché il frigo si rompe, la lavastoviglie si rompe. C’è una cura non solo della casa, ma anche delle tecnologie. La cosa che mi ha colpita di più è che quando noi vediamo l’immagine di una donna che passa l’aspirapolvere dentro una casa diamo per scontato che un’aspirapolvere a casa sia necessaria. Come sottolineano Hester e Srnicek, non si tratta solo di lavoro di cura femminile, ignorato perché femminile, ma anche del modo in cui la casa è stata progettata: è un modo che ci ha portato a passare molto più tempo a curare quello che c’è dentro le nostre quattro mura, e non una collettività.
È una grandissima illusione pensare che la tecnologia sia di per sé una soluzione; come per ogni cosa, dipende da come viene progettata e utilizzata. Dobbiamo fare attenzione quando la tecnologia ci viene raccontata semplicemente come una cosa che ci aiuta, perché in realtà spesso e volentieri è solo un modo per occupare il nostro spazio mentale al posto di pensare ad aspetti politici e sociali della nostra comunità: la sanità pubblica, l’asilo pubblico… Ci troviamo a pensare costantemente a dover pulire per terra, riempire il frigo, curare nostro figlio e sono tutte cose che noi quotidianamente purtroppo viviamo come delle impellenze solitarie. La questione che emerge in modo chiarissimo dalle immagini è proprio questa aspirazionalità alla casa unifamiliare. Questo desiderio idealizzato della casa con due o tre bimbi, il giardino, un bel macchinone, fuori dal rumore della città. Se riesci a vedere la cornice capisci che si tratta cioè di sogni singoli, sogni per quattro persone al massimo, sogni stretti.
Questo libro mi ha fatto riflettere molto sugli intrecci tra la condizione delle donne e quella della famiglia. Si tratta di una storia: il sottotitolo non a caso è Una storia della casa e della lotta per il tempo libero, a sottolineare che anche la casa, come la famiglia, ha una storia. E se ha una storia, significa che la forma attuale ha avuto un inizio e potrebbe avere una fine. La casa per come la viviamo oggi non è naturale come niente di quel che riguarda gli esseri umani. Tuttavia, sappiamo che il ruolo femminile è stato caricato nei secoli, come negli ultimi anni, di narrazioni legate alla naturalità di certe cose legate alla famiglia: i figli fatti in un certo modo che bisogna amare in un certo modo, la casa deve essere in un certo modo, la famiglia è formata da quel tipo di persone con quel tipo di vincolo…
La gestione dei figli, in particolare, è lo snodo tramite il quale le donne sono più colpevolizzate e il dibattito è molto polarizzato. Il capitalismo lavora sul senso di colpa: se vuoi la casa unifamiliare poi la devi curare come dovrebbe essere curata, devi pensare ai pavimenti.
Se invece ribaltassimo la prospettiva? Se le case fossero collettive? All’interno del libro ci sono molti esempi di abitare comunitario e lì la prospettiva cambia perché non si pensa più al pavimento singolo, ma si pensa, per esempio, a cucinare per la comunità. Un condominio in cui non c’è una singola cucina in ogni appartamento, ma una grandissima cucina gestita insieme.
All’interno dell’immaginario legato al tempo libero ci sono cose molto aspirazionali e terribili, come il grande viaggio per mete esotiche o il viaggio all’avventura nella natura più dispersa. Tutte esperienze molto instagrammabili. Per aderire devi avere tempo, soldi e devi produrre reputazione postando sui social quanto è bello quello che stai facendo. Non mi sentirei di definire quel tempo come liberato, visto che devi produrre costantemente. La mia domanda, quindi, è: qual è il tempo libero? Il problema è che, appunto, è sempre più aspirazionale ed è sempre più monetizzabile in senso completamente egoriferito, narcisistico e individuale. È una cosa veramente atroce.
Forse non sono delle immagini quelle che oggi potremmo usare per avviarci al tempo libero, ma delle pratiche. Piccole pratiche di liberazione del tempo, come ad esempio prendersi lo spazio per la contemplazione, intesa proprio come guardare le cose, contemplarle mentre si cerca di non pensare a niente per pochi minuti al giorno. È sempre stato difficile, ma oggi che la mente deve sempre andare e devi sempre testimoniare tutto quello che fai penso lo sia ancora di più. Sono molto contenta del poster che abbiamo fatto insieme alle reti anti-tratta e anti-violenza a Milano, dove abbiamo deciso di rappresentare lo stare bene con una persona che è stesa sul prato e non fa nulla.
Un’altra pratica che è importantissima nella mia quotidianità è camminare. Lo faccio per almeno due ore al giorno. È un atto antieconomico perché perdi tempo, perché per camminare devi stare attento a dove metti i piedi e non puoi stare a lungo col cellulare in mano.
Uno dei miei miti è l’architetto, pittore e grafico austriaco Friedensreich Hundertwasser. Diceva che la stupidità degli umani occidentali si vede dall’invenzione dei pavimenti lisci. Rendendo lisce le superfici su cui camminiamo tutti i giorni, ci siamo tolti da soli un modo importantissimo per conoscere la realtà. La terra non è mai liscia: se cammini in un bosco, su un ghiaino o sulla sabbia, i tuoi piedi ti informano su ciò che c’è sotto. Per stare in piedi devi perdere l’equilibrio per mantenerlo. Camminare è uno degli atti più difficili che compiamo quotidianamente, ma ce lo dimentichiamo perché abbiamo piegato la terra al nostro volere. Bisogna tenersi degli spazi quotidiani completamente infruttuosi e segreti, non testimoniati, non pubblici. Degli spazi di contemplazione.
Tanti anni fa a un concerto del primo maggio Paolo Nori raccontò che aveva visto una scritta su un muro: «Pane e lavoro». E che sotto degli anarchici avevano aggiunto: «Noi invece vogliamo solo il pane». So che per alcune persone è inaccettabile dire: ripensiamo il lavoro, lavoriamo di meno. Perché il lavoro è importantissimo, ha cambiato i destini di moltissime persone e famiglie. Allo stesso modo la donna che cent’anni fa si spaccava la schiena sulla legna mi direbbe: «Ringrazia il cielo che c’è il frigo, è stato un miracolo!» Eppure fermarci a guardare il nostro frigo per chiederci: che casa mi hanno venduto? Che lavoro mi hanno venduto? Che famiglia mi hanno venduto? Può sembrare una pausa infruttuosa e gratuita, oppure un modo per cominciare a pensare a un mondo diverso. Un mondo, per esempio, in cui si decide di ridistribuire le ricchezze e smettere di credere al motto capitalista che se vuoi ce la fai, e se non ce la fai è solo colpa tua. Un mondo in cui non ci sono persone senza casa né case senza persone, e in cui si ricomincia a pensare davvero alla comunità.
Nel bellissimo libro di Gianni Rodari Il giudice a dondolo si trova un racconto intitolato Rapporto a Marte. Un marziano descrive la Terra e i suoi abitanti, e conclude la descrizione dicendo: mi rendo conto che in tutta questa lettera ho usato questo verbo da noi ormai desueto, pagare. Ebbene, sulla Terra si paga per tutto: per andare al mare, per andare in montagna, per bere l’acqua. Il nostro è un sistema che ci condanna all’infelicità. Quando ce ne accorgiamo, veniamo colpevolizzati e ci viene detto che siamo noi a doverci prendere cura di noi stessi. E invece forse un modo per hackerare questo schifo sarebbe, come diceva sempre Rodari, percorrere la via sbagliata al socialismo: condividere qualcosa con il nostro vicino di casa, pulire per terra una volta di meno, tassare i ricchi una volta di più. Fare una cosa che non serve a niente per aiutarci davvero. Passare dall’io al noi.