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Cose e relazioni. Case.

  • Marzo 2020

In questi giorni difficili ci siamo chiesti quale pensiero potesse avere Codici su quello che sta succedendo. Ci siamo risposte che è ancora presto, non abbiamo avuto modo di parlarne insieme, stiamo vivendo in una dimensione più privata, viviamo condizioni molto diverse e abbiamo sensibilità differenti.
Per questo vogliamo valorizzare tutta questa diversità, componendo un racconto collettivo di come stiamo vivendo questi momenti. Sarà il punto di partenza per il prossimo numero della rivista codici404.
Oggi iniziamo da Jacopo, perché per lui è una data importante. Nei prossimi giorni continuerà il nostro racconto plurale, dalle diverse angolature delle nostre vite.


Mi sento sommerso, letteralmente, da articoli, post, dirette su Instagram, gif su WhatsApp, blogger e opinionisti che cercano di convincermi che questo sia un tempo per leggere, pensare a noi stessi e al nostro benessere, ritrovare gli affetti e le cose veramente importanti. E dire che, a guardarmi da fuori, sembra che abbia passato una vita – tutto sommato breve a dire il vero – a preparami a questo momento. Abito al settimo piano di un bel palazzo residenziale, piastrelle in klinker (quelle che andavano tanto di moda negli anni 70), larghi balconi abitabili, portineria. Quando ho rifatto l’appartamento ho cablato la casa, ho un server per gestire i file multimediali, un amplificatore connesso alla rete e casse passive che diffondono qualsiasi melodia io voglia, un proiettore per guardarmi i film. Ho messo la lampada da lettura sopra il divano, una di design, per leggere quanto di accumulato in questi anni di lavoro e studio. Adoro le graphic novel, un’intera parte della mia bella libreria è dedicata a loro. Ho un bilocale luminoso, ci abito con Alice, la persona che amo.

Cose e relazioni. Case.

C’è uno striscione appeso su un balcone di qualche città spagnola che recita così “la romantizaciòn de la cuarentena es privilegio de clase”. Ascolto con molto trasporto quanto sta accadendo nelle carceri, leggo i comunicati dei coordinamenti delle persone che vivono nei centri di accoglienza straordinari. Nelle chat di quartiere mi arrivano le voci delle persone anziane chiuse in casa, i racconti sulla vita che fanno le famiglie stipate nei piccoli alloggi di un quartiere popolare, spesso poco accoglienti e con coabitazioni difficili. Mi immagino cosa voglia dire adesso vivere con il figlio psichiatrico in casa, con una persona disabile, con un affetto gravemente malato. Sento la tensione, la fatica di tanti ragazzi e ragazze senza computer o costretti a spartirlo, con fratelli sorelle e famigliari, costretti a dividere il tempo della scuola con tutta la famiglia. E poi ci sono quelle storie, quelle tremende, di senza dimora multati nelle strade delle città italiane, violavano il decreto ministeriale, quello del #restiamoacasa e #andràtuttobene.

Cose e relazioni. Case.

Lo spazio domestico ha invaso quello pubblico, quello del lavoro (per chi ha la fortuna di poterlo continuare a fare), quello della scuola, quello della sanità, quello della sicurezza personale, quello degli aperitivi. Dico che è lo spazio domestico ad entrare in quello pubblico e non viceversa perché è in questo movimento che vedo una delle scoperte più interessanti che stiamo facendo. Le nostre case, la nostra condizione abitativa – per dirla giusta -, non rimane confinata dietro alla porta di ingresso, influisce su quello che facciamo e sul modo in cui riusciamo a farlo, ne è intrinsecamente parte. In questi giorni è più evidente che mai perché sono implosi i tanti piccoli dispositivi che ci aiutavano a pensarla, a volte tenerla, fuori. Anche le notizie meno drammatiche, quelle che abbiamo stigmatizzato con il sorriso, forse possono raccontarci qualcosa. Ad esempio secondo Eurostat il 43.3% dei giovani italiani tra i 15 e i 29 anni vive in case sovraffollate, molti di loro sono i giovani che hanno riempito i treni che da Milano partivano per il sud. Così anche in questo caso, apparentemente distante, poteva essere utile guardare la vicenda sotto un’altra lente, quella delle nostre case, forse saremmo riusciti a farci delle domande. Certo, direte voi, questo è il determinismo di chi guarda tutto attraverso una sola lente, una sola variabile. È innegabile però che le case, le cose di cui le abbiamo riempite e le relazioni che le abitano, sono diventate in questi giorni una determinante essenziale del nostro benessere. Mai come oggi si rivelano un’infrastruttura sociale, condizione necessaria per partecipare alla società.

Oggi, il 28 marzo avrebbe dovuto essere l’housing action day, una giornata internazionale di azione per il diritto all’abitare. Non si farà, non in questi giorni che siamo tutti e tutte chiusi in casa. Proviamo però a sfruttare questa occasione come un momento per farci delle domande, per chiederci cosa possiamo considerare – non noi come individui, ma come collettività – casa: lo è l’edilizia residenziale pubblica in stato di abbandono dei molti quartieri di periferia? Lo sono le coabitazioni forzate in alcuni dei nostri servizi? Lo è la precarietà a cui sono obbligate le famiglie che hanno difficoltà a pagare l’affitto (stimate in circa 1.400.000 secondo dati Istat)?

Quando usciremo nuovamente in strada ci aspettano delle sfide importanti, probabilmente impegnative per molte e molti di noi, per chi ha perso il reddito in questo tempo sospeso, per chi dovrà ricostruirsi una vita, per i giovani che hanno visto interrotti i propri percorsi. Sono tante le opinioni sul domani, e questo è un bene perché si sta tornando, mi pare, a discutere di futuri anche radicalmente diversi dall’oggi. Io ho pochissime certezze su quale direzione si prenderà, vorrei essere anche io ottimista, ma i racconti che mi circondano, le storie di case che sento, non me lo lasciano essere. Vorrei che questi giorni ci portassero a dubitare delle forme che abbiamo dato al nostro abitare, della matrice privatistica, familistica e individualizzante che ha caratterizzato le politiche abitative in questi anni. Vorrei che guardassimo la casa non più (solo) come ad un esito di quello che abbiamo fatto, ma come una precondizione per fare. Mi accontenterei insomma di scoprire insieme che per costruire città inclusive dobbiamo ripartire anche da qui, dall’unità minima di cui sono fatte: le (nostre) case.

 

Jacopo Lareno Faccini

28.03.2020

 

Foto ☉☉ Museum of Internet

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