Mentre scrivevo questo articolo, a Milano è stato occupato il Liceo Linguistico Manzoni, noto come la Manzoni per distinguerlo dal Liceo Classico il Manzoni. A Milano gli articoli fanno la differenza. Dopo aver incrociato la notizia su alcuni profili Instagram che seguo, sono andata sulla pagina del Collettivo Manzoni Antagonista e ho letto il racconto del percorso che ha portato all’occupazione.
Il collettivo, con la collaborazione delle rappresentanze di Istituto, ha costruito un questionario e lo ha sottoposto alle compagne e ai compagni di scuola. Ha raccolto 625 risposte, le ha analizzate e ha restituito i dati alla scuola (in parte anche al pubblico, perché alcune sintesi quantitative sono disponibili sul profilo Instagram di cui sopra). Il questionario esplorava temi legati alla salute mentale a scuola. Le risposte raccolte hanno restituito un quadro molto critico: un dato, tra tutti, è che il 51% (oltre 300 persone) ha dichiarato che spesso o molto spesso piange o ha breakdown dovuti alla scuola.
Quel post contiene (almeno) un termine, (almeno) un’espressione e (almeno) due questioni che avrei usato qui per raccontare le riflessioni generate da alcuni lavori condotti negli ultimi tre anni sui temi del contrasto alle disuguaglianze educative. Mi è sembrata una coincidenza da non ignorare. Non perché volessi raccontare dati sorprendenti o elementi innovativi, ma perché questa coincidenza racconta un incontro tra due discorsi e percorsi diversi: un’azione di un collettivo studentesco e alcuni lavori di ricerca e di intervento sociale. Questo incontro, forzato narrativamente da me, segnala l’impellenza di concentrarsi su alcuni temi e di scegliere alcuni approcci per comprendere la complessità della scuola e per contrastare le disuguaglianze educative che in essa si producono e si riproducono.
Userò per scandire il testo quell’espressione, quel termine e quelle due questioni contenute nel post del collettivo, come se fossero delle lucine di segnalazione in un percorso in penombra.
La cosa straordinaria di un approccio che indaga la realtà ponendo domande è che si dà centralità sia a chi le pone – che si assume la responsabilità di scegliere cosa chiedere e perché – sia a chi risponde, che viene considerato la persona più autorevole per raccontare la propria versione della storia e che, nel farlo, contribuisce alla composizione di un quadro fatto di altre storie.
C’è quindi un primo movimento: decidere di chiedere, avendo in mente perché lo facciamo e quali questioni vogliamo porre. Poi, c’è un secondo movimento: scegliere a chi chiedere.
Questo approccio che, descritto a parole, (mi) risulterebbe tanto bello quanto banale, non va dato per scontato quando si parla di scuola e, soprattutto, di minori. Quando si lavora con ragazzi e ragazze, spesso capita che di loro si chieda a persone adulte.
Ritorna spesso, nei lavori che facciamo a Codici, una frase detta e ripetuta da ragazzi e ragazze di età diverse, incontrati per ragioni differenti. Una frase spesso pronunciata dopo un ringraziamento e che potrei sintetizzare così: raramente mi hanno chiesto cosa ho da dire o cosa penso. Accade per varie ragioni: la loro tutela e privacy, perché è più dispendioso per chi fa ricerca adattare i metodi tradizionali a persone più giovani, se non molto piccole o perché è molto difficile chiedere senza sapere con certezza quale sarà la ricaduta di quelle domande. Ti racconto come sto a scuola, cosa mi spinge a studiare o a non farlo, che rapporto ho con le mie amicizie, che attività faccio. E poi tu che ci fai con tutte queste informazioni?
Tuttavia non può continuare a spaventarci così tanto interpellare chi è al centro della vita scolastica e si confronta con le sue dirette conseguenze. Per avere meno paura, si può costruire un approfondimento di ricerca (anche piccolo), avendo sempre in mente almeno tre elementi, che diventano delle boe di riferimento.
Il primo: avere fiducia nella competenza di ragazzi e ragazze quando si tratta di parlare per sé e di sé. “Chissà se diranno la verità”, “sicuramente risponderanno a caso”, “in questa classe sono molto indisciplinati, non vi assicuro niente”. Sono obiezioni molto comuni, sicuramente confutabili, perché non esiste nessun metodo di ricerca che consenta di accedere a una verità, ma solo alla porzione di verità che chi è coinvolto intende condividere con noi. Ma soprattutto, tutte le volte, sono contraddette dai fatti: curiosità, responsabilità, attenzione, collaborazione sono le cose che più di frequente abbiamo visto facendo ricerca con ragazzi e ragazze.
Il secondo elemento è chiarire fin dall’inizio l’obiettivo di quella raccolta dati. Chi si coinvolge apprezzerà la trasparenza, saprà di star contribuendo con il proprio tempo a qualcosa di chiaro e definito, ne conoscerà l’inizio e la fine, come eventualmente le incertezze. Questo è vero anche quando non si tratta di percorsi di ricerca partecipata, ma al contrario di lavori in cui si chiede loro di contribuire raccontando di sé, perché qualcun’altro – la loro scuola, il loro spazio giovani e le altre agenzie educative coinvolte – inizi a capirne qualcosa in più.
Attorno a queste due boe possono succedere molte cose, ma tutte le volte che si cura un percorso di ricerca con ragazzi e ragazze – che abbiano nove o sedici anni – e li si tratta da interlocutori all’altezza, l’esito – che stupisce che sia definito sorprendente da chi lavora con loro – è sempre di grande attenzione e serietà nel collaborare con noi.
Infine, la terza boa è mettere in campo dispositivi concreti attraverso cui i ragazzi e le ragazze possano esprimersi liberamente; se necessario in forma anonima e in un contesto protetto, sempre prestando la massima attenzione affinché il loro coinvolgimento sia su base volontaria. Come mostra in modo chiarissimo l’esempio della Manzoni, il dispositivo può anche essere uno strumento molto noto, comune, diffuso e qualcuno potrebbe dire abusato: il questionario.
Senza voler avviare una lezione di metodologia della ricerca sociale, si intuisce di cosa parliamo.
Per conoscere qualcosa che ci interessa, di cui vogliamo sapere di più, rispetto a cui vogliamo intervenire o su cui ci viene chiesto di dire qualcosa, decidiamo di porre delle domande a un gruppo di persone. In alcuni casi lo facciamo cercando di ottenere delle risposte su cui sia possibile fare delle analisi statistiche, quindi riduciamo la complessità, usiamo delle risposte chiuse che ci permettono di raccogliere risposte diverse e simili allo stesso tempo. In altri casi possiamo provare ad aprire, lasciando lo spazio a chi risponde di scegliere tutto ciò che vuole raccontarci e di farlo a parole e modo suo. Un questionario ci permette di raccogliere molte informazioni in maniera strutturata, sollecitando molte persone contemporaneamente.
Anche quando si tratta di uno studio quantitativo metodologicamente impeccabile, non c’è niente di perfetto o magico in un questionario di per sé, né nel modo in cui consente di raccogliere i dati. Non ci affidiamo a un questionario perché ci permette di accedere alla verità, ma perché ci permette, temporaneamente e con riferimento a dimensioni e temi selezionati, di ridurre la complessità.
Questa riduzione di complessità funziona come quando passiamo la mano su un vetro appannato. Ci permette di vedere meglio quello che c’è oltre il vetro. Non significa che vediamo tutto, né che capiamo esattamente cosa c’è fuori, ma cogliamo quanto è essenziale per permetterci di dare un senso a quella trasparenza, guardare o far passare la luce. Quanto siamo in grado di vedere continua comunque a dipendere dalla nostra vista, da dove siamo posizionate, dalla luminosità esterna, da altri oggetti presenti nella visuale.
Come dicevo all’inizio, negli ultimi tre anni abbiamo avuto alcune occasioni di lavoro in cui, con la collaborazione essenziale di alcuni istituti comprensivi e centri giovani, abbiamo intercettato ragazzi e ragazze, sottoponendo loro delle domande con dei questionari costruiti ad hoc. Nella cornice più ampia del contrasto alle povertà educative, i questionari indagavano vari temi – combinando domande mutuate da altri studi e domande costruite da noi – riconoscendo la complessità e multidimensionalità del fenomeno, andando oltre ai voti e alle competenze cognitive.
Occupandosi di scuola e disuguaglianze, diventa una scelta non secondaria iniziare a introdurre alcune dimensioni di analisi solitamente più complesse da indagare, misurare e maneggiare, come per esempio il benessere a scuola, le relazioni amicali, le ragioni che stanno dietro alle motivazioni allo studio, l’autostima, ma anche le competenze non cognitive, che hanno a che vedere per esempio con la consapevolezza di sé, l’autonomia, la relazione e il lavoro in gruppo.
Introdurli significa allargare un po’ lo sguardo su questioni poco esplorate che però sono quelle che potrebbero fare la differenza per chi, partendo da una condizione di svantaggio, ce la fa nonostante tutto. Dove per “farcela” intendiamo quella situazione in cui qualunque persona è messa nelle condizioni di imparare e apprendere, di rimanere a scuola, di avere tutte le opportunità di scelta e compiere quelle che la soddisfano. Scelte che non siano appiattite sulla sua famiglia di origine o sul suo voto, che portano la persona a fare esperienze che le consentano di conoscersi e capire chi vuole essere.
Per questa ragione, potrebbe essere cruciale iniziare a studiare queste dimensioni sistematicamente, per arrivare a saperne tanto quanto ne sappiamo di performance e voti.
Ciò che è emerso da questi piccoli lavori non è sorprendente, inatteso o innovativo. Chi viene da e vive in un contesto socio-economico e culturale che permette di avere e fare più cose – oltre ad andare meglio a scuola – sembra starci meglio, ha più amicizie, riesce a costruirsi meccanismi di motivazione più slegati dal sistema di premio-punizione esterno. Viceversa, chi si trova in un contesto più svantaggiato – oltre ad andare peggio a scuola – sembra più spesso in solitudine, sia nelle attività fatte che nelle amicizie, mostra segnali di malessere, fa più fatica nel descriversi come persona autonoma e a partecipare in classe. E così via, in quelli che paiono essere circoli virtuosi e viziosi molto ben oliati all’interno delle scuole e degli spazi in cui sono state fatte le rilevazioni.
Ancora una volta, abbiamo di fronte un sistema scolastico che contribuisce al riprodursi di disuguaglianze educative sulla base della classe, del genere, del background migratorio, nelle opportunità di concludere la scuola, in quelle di ottenere un titolo, in quelle di accedere all’università. Se volessimo valutare in termini di risultato questo sistema, considerando le premesse e le promesse, costituzionali e normative del sistema di istruzione pubblico, il voto da scrivere sul registro elettronico (sic!) sarebbe insufficiente.
Eppure, alcune chiavi trasformative e di cambiamento stanno anche dentro il sistema stesso e vanno studiate delle soluzioni insieme alle persone che lo abitano e animano.
Quando si parla di scuola, avremmo già tutti gli elementi per capire cosa c’è che non va e perché un attore così importante nella socializzazione e formazione dei singoli, costruito sulla carta – almeno in Italia – come motore di democrazia e uguaglianza, non sia in grado di adempiere al suo compito. Uso il condizionale perché ci sono pubblicazioni su pubblicazioni – dentro e fuori dalle università, più o meno accessibili e più o meno rivolte a un pubblico non accademico – che ci raccontano come la scuola in Italia continui ad essere un luogo dove le disuguaglianze si acuiscono invece di ridursi.
Eppure, c’è un doppio cortocircuito. Da un lato sembra che quello che si sa sulla scuola, intesa come ostacolo, buco nero, muro di separazione, luogo che lascia indietro chi ne avrebbe più bisogno, non si rivolga sempre – o non a sufficienza – a chi fa scuola.
Dall’altro chi fa scuola, per ragioni che sarebbe dispendioso spiegare ora, fatica a collegare le storie individuali delle proprie classi a questioni di sistema più ampie, che riguardano tanti ragazzi e tante ragazze. Fare questo collegamento non significherebbe includere le singole storie su una sola categoria, al contrario, significherebbe conoscere meglio alcuni vincoli che hanno un grande peso sui percorsi scolastici – primo tra tutti la famiglia – e considerarli nel garantire uguali opportunità e soprattutto immaginare strategie possibili affinché le singole persone, trovando supporto nel sistema in cui sono inserite, abbiano anche solo una chance di invertire il destino.
Per questo doppio cortocircuito, porre di fronte le persone adulte a dati quantitativi, che tracciano una fotografia del presente dei ragazzi e delle ragazze con cui lavorano tutti i giorni, può risultare particolarmente potente. E consente anche di rivedere in positivo il senso dell’uso di un questionario, anche laddove le risposte non siano numerose, il campionamento non sia rappresentativo della popolazione e, per semplificare, neanche la natura dei dati permetta di fare inferenze. Presentare i dati di 1000, 600, 300 questionari ai contesti in cui sono stati somministrati – e in particolare agli attori adulti chiave di questi contesti – dà un senso a quelle analisi al di là della generalizzazione dei risultati.
Trovarsi di fronte a una fotografia permette a chi la guarda di avere una visione di insieme, molto dettagliata, di cosa succede in quel momento nella scuola. È importante in questo caso che la visione sia guidata da chi ha fatto la ricerca. È necessario che fornisca alcuni elementi per capire cosa c’è dietro (come sono stati raccolti i dati, quali ragionamenti sono stati fatti sulle domande, quali sono le relazioni tra le variabili etc.). Dopo aver guardato e capito qualcosa in più di prima, trovarsi di fronte a questi dati è generativo su più livelli.
In primo luogo porta chi fa scuola a chiedersi che ruolo si ha in quella fotografia, innescando percorsi di autovalutazione e di riflessione. O spinge anche a chiedersi cosa fa sì che la situazione abbia proprio quelle caratteristiche. Spinge a volerne sapere di più, aprendo a nuovi approfondimenti. E, soprattutto, consente di individuare alcuni oggetti di lavoro attorno a cui interrogarsi per capire come intervenire.
Lavorare a livello micro, non significa dimenticare i limiti e le criticità di un sistema più ampio, ma può dare spunti per immaginare cambiamenti concreti.
È proprio la sperimentazione di piccoli aggiustamenti alla portata della scuola a concludere l’esperienza dell’occupazione della Manzoni. Si apre però un nuovo percorso, fatto di possibili soluzioni.
“Pertanto, la scuola si impegnerà a:
– Aumentare il supporto psicologico per gli studenti, garantendo la possibilità di fissare più di un incontro a settimana;
– Progettare dei corsi di formazione mirata per i docenti riguardanti i seguenti argomenti: neurodivergenze, rapporti e iniziative destinate alla comunità LGBTQIA, stati d’ansia e gestione dei rapporti interpersonali, utilizzo degli strumenti tecnologici;
– Introdurre dei commenti personalizzati per tutte le votazioni numeriche date agli studenti;
– Eliminare il voto “1” nelle verifiche;
– Garantire la possibilità di recuperare voti insufficienti durante tutto l’anno scolastico;
– Calendarizzare un massimo di due verifiche, comprese quelle orali, al giorno;
– Istituire un tavolo di confronto paritetico tra rappresentanti degli studenti e rappresentanti dei docenti sui temi del Benessere Psicologico;
– Creare strumento dedicato rivolto agli studenti che, con garanzia di anonimato, potranno rappresentare situazioni di stress e disagio.”
Le proposte fatte da studenti e studentesse e l’impegno preso dalla scuola nei loro confronti sono un punto di partenza, non di arrivo. Segnalano quanto sia importante sottoporre a prova ciò che funziona o non funziona, e chiedersi il perché, come primo imprescindibile passo per un cambiamento.
Nota:
I riferimenti in questo testo sono relativi a tre attività di ricerca e approfondimento realizzate da Codici tra il 2019 e il 2023:
1. REAGENTI, ricerca sulla povertà educativa nel rhodense;
2. I fattori di povertà e qualità della vita dei ragazzi e delle ragazze nei doposcuola di Milano, realizzato nell’ambito dell’Osservatorio popolare – Qubì;
3. Approfondimento sul bilancio di integrazione nell’I.C. Giacosa, nell’ambito del progetto S-Cambiamo.
La maggior parte di queste riflessioni si sono generate a partire dagli scambi avvenuti, prima, durante e dopo le attività di ricerca, con i colleghi e le colleghe con cui ho lavorato. Un ringraziamento particolare va a Cecilia Pennati.
Foto ☉☉ Simone Deidda, Bologna