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Bolle di sapone. Lo spazio, il tempo e la paura.

  • Maggio 2020

Fin da quando è iniziata la quarantena, ci siamo chiesti quale pensiero potesse avere Codici su quello che sta succedendo. Abbiamo iniziato a condividere racconti della nostra dimensione più privata. Tutte e tutti a Codici, stiamo vivendo condizioni molto diverse e abbiamo sensibilità differenti. Tra noi c’è chi trascorre la quarantena in solitaria, chi con il proprio o la propria partner e chi con uno o più bambini piccoli. Sono vite, tempi, spazi e bisogni, quelli dei bambini e delle bambine, in cui è arrivata la notizia del virus e le conseguenze delle misure di quarantena e distanziamento, che si intrecciano alle vite, ai tempi e ai bisogni delle loro genitori. Le storie che seguono ci raccontano cosa si vede da lì, dentro case attraversate da stupori e paure, giochi e scoperte, porte che si vorrebbe poter chiudere e tempo ristretto o ritrovato.
I racconti hanno mosso i loro passi a partire da alcuni interrogativi che la redazione della rivista codici404 ha voluto porre per stimolare il pensiero e accompagnare la scrittura di chi ha voluto raccontarsi. Si è chiesto di descrivere sé e la propria famiglia, di pensare agli aspetti positivi e negativi di questo periodo trascorso in quarantena, di raccontare aneddoti legati alle parole tempo, silenzio, spazio, cambiamento, paura, di dirci di qualcosa che i propri figli e le proprie figlie hanno imparato. Di parlare di sé come genitore e come socio/a di Codici, di raccontarci su quali risorse si fa affidamento e di cosa, invece, si avrebbe bisogno, per affrontare questi tempi inaspettati.


Bolle di sapone. Lo spazio, il tempo e la paura.
Guido Belloni

Dal 9 marzo condivido, come tutte le altre famiglie, il mio spazio domestico con mia moglie e mia figlia. È una convivenza stretta in 50 mq, che, come tante altre, fatica a conciliare i tempi di vita, di lavoro, di gioco, con la paura per quello che sta succedendo fuori, e che sta facendo fiorire pensieri e riflessioni urgenti. Sta sollevando domande. Tra le altre, sto riflettendo molto sul significato che attribuisco alle parole: sul significato che attribuivo prima, su quello che attribuisco ora, su cosa significheranno per me (per noi) dopo.

Mia figlia ha quasi tre anni e la convivenza forzata degli ultimi due mesi con i suoi genitori, quali unici modelli di linguaggio adulti, ha stimolato in lei uno scatto di crescita, anche e soprattutto dal punto di vista linguistico e lessicale. A questa età i bambini sono spugne, perché assorbono espressioni e comportamenti e li rilasciano con altrettanta facilità, ma rimane la sorpresa con cui B. si è appropriata in questo periodo di quarantena di alcune parole ricorrenti (dalla call con i colleghi alla mascherina antinfluenzale) e di come abbia arricchito il proprio linguaggio (di nuove parole, di tempi e modi verbali). Una sorpresa che ha presto lasciato spazio a una mia sensazione di turbamento, quando ho notato un’elaborazione adulta di alcuni concetti, anche complessi. È una constatazione difficile da fare, perché non sono sicuro di riuscire a distinguere il confine tra la mia interpretazione e un utilizzo consapevole dei termini da parte sua. Così, quando le ho sentito dire “Sono disperata, non posso uscire, non posso giocare con gli amici del nido. Perché?” ho subito collegato la domanda a un’affermazione di malessere, a una sua non accettazione del distanziamento sociale applicato alla scansione della vita di una bambina, ma anche a un certo grado di rigetto di spiegazioni sommarie, semplificate, approssimative. Ho pensato (lo credo tutt’ora) che fosse il primo tentativo di mia figlia di affermare la sua soggettività in riferimento a un corpo sociale che riconosce, il nido, improvvisamente uscito dal suo perimetro quotidiano. Ma anche di esprimere il suo diritto alla curiosità, la sua urgenza di capire e di sollevare domande.

La trovo una cosa bellissima e terrificante al tempo stesso, che mi ha obbligato a ripensare a come parlo con mia figlia, alle parole che uso e al loro significato in un momento in cui le parole costituiscono le unità di apprendimento di base dei bambini in età prescolare. La quarantena ha tolto il velo che copriva il mondo adulto e lo ha esposto in maniera irreversibile al gioco simbolico dei bambini. È per questo motivo che, con l’aiuto di B., mi sono ritrovato a rivisitare alcune parole.

Bolle di sapone
Dopo l’infanzia, le bolle di sapone erano rimaste nella zona periferica dei miei ricordi, come un passatempo piacevole, non indispensabile, ma conosciuto e pertanto presente. Poi, in adolescenza, con il crescente interesse verso il mondo del calcio e le sfaccettature che assumeva in differenti contesti sociali ed economici, ho ritrovato le bolle di sapone in un famoso coro del West Ham United:

I’m forever blowing bubbles,
Pretty bubbles in the air,
They fly so high, nearly reach the sky,
Then like my dreams they fade and die.
Fortune’s always hiding,
I’ve looked everywhere,
I’m forever blowing bubbles,
Pretty bubbles in the air.”

La canzone riprende l’immagine della bolla di sapone con un significato malinconico, legato alle aspettative di una squadra di mezza classifica, le cui velleità di risultato puntualmente deflagrano nella seconda metà della stagione; ma contiene, soprattutto, la disillusione di veder costantemente infrangere aspettative e sogni di una working class ben rappresentata dal tifo degli hammers. Così, a lungo, le bolle di sapone sono state un’immagine malinconica. Finché, in un pomeriggio di primavera in quarantena, non mi sono messo a fare le bolle di sapone sul balcone con B. Crearne una, trasparente e rifrangente, da una miscela di acqua e sapone, e vedere lo stupore negli occhi di mia figlia al decollare della bolla, constatare la sua ostinazione nel seguirne il percorso il più a lungo possibile, ha definitivamente cambiato la mia percezione. Da quel giorno le nostre bolle non contengono alcuna sfumatura malinconica, sono anzi messaggi di speranza e buoni propositi affidati al vento. Sono piccole storie di resistenza che si fanno largo in un ambiente ostile.

Spazio
Lo spazio non è mai abbastanza, è un concetto finito, concettualmente delimitato, su cui l’uomo cerca da sempre di esercitare un ordine: in quarantena siamo compressi, ci calpestiamo i piedi, in 50 mq si incontrano e si alternano le nostre vite, in una sola stanza c’è l’ufficio della mamma, l’ufficio del papà, lo spazio-giochi della bambina. Ma allo stesso tempo lo spazio è il luogo, indefinito e illimitato, in cui esistono e si muovono tutte le cose materiali: in quegli stessi 50mq si diramano sentieri tortuosi, si costruiscono torri, corrono treni, vagano lupi affamati alla ricerca di un piatto caldo, … spesso mi chiedo cosa comporti misurare le nostre esistenze in quarantena attraverso lo spazio, diventato irrimediabilmente domestico, quindi, casa. Mai come in questi giorni sento addosso il peso della disuguaglianza intrinseca nella condizione abitativa, una disuguaglianza che si misura in metri quadri, in numero di stanze, nella presenza di balconi, di cortili e giardini condominiali, di cucine rifornite, di connessioni wifi. In questa casa, nel nostro spazio, abbiamo tutto quello che ci serve: noi, la nostra salute e i nostri affetti, le nostre piccole comodità. E i treni, se mai volessimo andare da qualche parte.

Tempo
Tempo di preparazione, tempo di cottura. Mai come in questi giorni il valore del tempo è una variabile in cerca di ridefinizione. Io, il valore del tempo, lo sto cercando in un ritmo rallentato, in una scansione più lenta dei momenti della giornata. A essi associo indissolubilmente la presenza di mia figlia e la sua voracità nei confronti della vita, che significa una fretta sana, dettata dalla curiosità e dall’attenzione di una bambina. Tutto ha un nuovo significato: preparare meticolosamente gli ingredienti, aspettare la lievitazione, cuocere, per poi mangiare. Vivo questi momenti a due velocità: quella dell’adulto, che trova in questi gesti serenità, manualità, valore dell’attesa, godere del sapore ritrovato di una cosa che fu; quella della bambina, che si sporca le mani, e se ne va, ritorna, scombina e sporca, si stanca, vuole ritornare a fare i gesti e i giochi appena lasciati. Il tempo non può e non deve essere pesato con le stesse variabili che utilizza l’adulto. E l’adulto? Sorride, paziente, pensa che sta facendo tutto questo un po’ per la bambina, ma molto anche per sé, per ritrovare gesti e significati sepolti chissà dove. La bambina lo sorprende: ha memorizzato nomi, cose, procedimenti con la semplicità propria dei bambini.

Paura
In casa nostra ci sono i lupi. Non sono cattivi, ma la prima reazione è lo spavento, è naturale nascondersi sotto le coperte, per istinto di conservazione, possibilmente non da soli. Poi il lupo lo si conosce meglio, ci si scherza un po’, marameo, la paura passa, alla fine lo si invita a pranzo. Chi è, che cos’è il lupo? Per l’io adulto, è quello che troverò fuori quando torneremo alla normalità, se mai questa parola indicherà le medesime condizioni che abbiamo lasciato prima delle quarantene. Ecco, la mia paura è di ritrovare nelle persone, nelle istituzioni, un’ottusa ricerca di quella normalità che fu, di non aver colto i segnali per un cambiamento che DOVEVA avvenire, di cui la pandemia ha meschinamente assunto il ruolo di fattore scatenante. O forse, la mia è paura di non farmi trovare pronto. La paura di essere io quello che il segnale non l’ha colto.


Foto ☉☉Quarzo – Primary Mineral – Smithsonian Open Access

Pirite, Grafite, Marcasite, Calcite, Aragonite e Quarzo sono alcuni tra i minerali accomunati dalla stessa origine: il polimorfismo ricostruttivo. È la reazione che permette la riorganizzazione praticamente completa della struttura cristallina. Questo tipo di trasformazione richiede una grande quantità di energia, non è facilmente reversibile ed è piuttosto lenta. Una metafora di quello che stiamo percependo in questi giorni.
Le immagini vengo dalla Smithsonian Open Access che un mese fa ha resto disponibili 2,8 milioni di immagini e dati in CC0.

Ricerca immagini a cura di Camilla Pin Montagnana

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