Intervista con Anna D’Amaro e Sofia Mehiel detta la Papessa del Movimento Identità Trans a cura di Laura Boschetti.
La campagna “Nessuna da sola” ha raccolto fondi per aiutare le lavoratrici sessuali durante l’emergenza sanitaria da COVID-19. Anna e Sofia del M.I.T. Movimento di Identità Trans ci hanno raccontato come è andata la campagna, quali bisogni hanno intercettato e quali sono stati gli effetti dell’emergenza sanitaria ancora in corso. La trascrizione dell’intervista è il più possibile fedele alla conversazione originale, per preservare la ricchezza del dialogo con e tra Anna e Sofia.
L’intervista è parte di Vie d’uscita, il nuovo numero della rivista indipendente codici404. Puoi acquistare la versione cartacea cliccando qui, oppure puoi scaricare gratuitamente il PDF iscrivendoti alla newsletter cliccando qui. Se sei già iscritta/o cerca tra le tue email l’indirizzo codici@codiciricerche.it.
Dialoghi404 > Martedì 25 maggio si è tenuto l’incontro Sex workers e pandemia. Con Anna D’Amaro e Sofia Mehiel detta Papessa del M.I.T. Movimento Identità Trans di Bologna. Per vedere e ascoltare l’incontro clicca qui
Vorremmo chiedervi cosa è successo in questi mesi, a partire dall’inizio del lock-down a marzo 2020, e cosa sta succedendo ora che l’emergenza sanitaria sta diventando la nostra normalità…
Anna: In un primo momento non sapevamo come muoverci, però c’è stata subito una chiamata tra noi del Movimento Identità Trans (MIT), il Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute e Ombre Rosse. Ci siamo sentite e abbiamo organizzato la raccolta fondi “Nessuna da sola”, perché non si parlava minimamente di aiuti previsti per le lavoratrici sessuali. Abbiamo lavorato tantissimo per renderla virale, affinché arrivasse a tutte e tutti. Ci sono stati step differenti: la diffusione tramite i social della campagna (spiegare che cos’era e a chi era rivolta), la raccolta fondi e la divisione tra le varie associazioni. Queste associazioni già in precedenza si occupavano dei diritti e della salute sessuale delle lavoratrici sessuali, per cui avevano rapporti con tantissime sex worker e potevano intercettarle in vari modi. Abbiamo diviso i vari aiuti tra le unità di strada e quelli che sono arrivati a noi li abbiamo declinati in aiuti alimentari, perché era quello che ci è stato chiesto prevalentemente e perché così sapevamo di poter aiutare più persone. Della distribuzione se n’è occupata Sofia, la mia collega che è operatrice pari dell’Unità di strada.
Come avete distribuito gli aiuti?
Sofia: Le richieste erano tante, all’inizio erano una quindicina e, alla fine, ci siamo trovate con ottanta persone a cui dare da mangiare. Visto che non si poteva uscire, mi sono trovata a portare la spesa alle persone. Come associazione abbiamo dato quello che ci donavano alle sex worker, ma anche a famiglie di persone trans, perché quando ci sono arrivate queste richieste ci sembrava giusto aiutare anche loro. C’erano persone che avevano problemi a pagare l’affitto, c’erano persone con problemi di documentazione e documenti che scadevano. Abbiamo avuto anche delle richieste di soldi, ma soldi non ne avevamo, perché quelli che ci mandavano li spendevamo per comprare da mangiare per le persone. A un certo punto anche le italiane hanno cominciato a farsi avanti, c’era una sorta di vergogna, non volevano farsi vedere…
È stata dura, le sex worker hanno questa grande forza, la forza di nascondere le loro sofferenze. Ci ha fatto molto male vedere determinate cose, quando vedi queste facce molto tristi, queste persone che non hanno da mangiare e che stanno male… Abbiamo assistito anche delle persone ricoverate in ospedale, alcune sono morte. Facevamo consegne di medicinali a persone che non potevano uscire di casa. Il mio lavoro è stato notte e giorno, per noi era una guerra senza bombe. Per fortuna siamo un’associazione che è molto voluta bene, questo posso dirlo veramente a testa alta e con grande orgoglio, perché vuol dire che ci stiamo dando da fare realmente, ma è comunque difficile tenere questa sofferenza che tu accumuli dentro…
Io ho grande stima delle sex worker, io ero una sex worker, lo dico ad alta voce, mi sono messa nei loro panni… è difficile, perché ci si sente sole. Una persona che conduce una vita normale, ha il parente, ha l’amico, ma quando invece una sex worker ha un periodo nero è diverso. Tu devi considerare una sex worker come un negozio, una piccola imprenditrice di sé stessa, che ha un grosso calo economico, quindi di conseguenza è senza nulla. Chi vuoi che la vada ad aiutare? Perché nell’immaginario collettivo il discorso è: ‘tanto lei fa marchette, sta bene’. In realtà molte persone con background migratorio tendono ad aiutare le famiglie nei propri Paesi di origine o quelle che sono a Bologna aiutano a Napoli o a Salerno. È quasi come fossero delle macchine da guerra o da sesso, che non si possono rovinare, ma in realtà sono persone.
Cosa è successo alle sex worker che lavorano da casa?
Anna: Siamo a Bologna, una grande città, e noi abbiamo tantissime persone che si rivolgono a noi attraverso l’unità di strada (attraverso cui portiamo preservativi, lubrificanti, materiale informativo su MTS), ma anche alcune ragazze dell’indoor. Io curo la parte indoor, mi occupo di contattare telefonicamente le sex worker che lavorano in casa e spiegare che ci sono dei servizi gratuiti e rivolti a loro per la riduzione del danno. La parte indoor è stata molto difficile, perché molte hanno staccato i cellulari, perché non potevano lavorare, c’era la pandemia, avevano paura sia di essere vettori di contagio sia di essere contagiate. Così come le street worker, anche loro non lavoravano e avevano spento i cellulari con cui lavorano, il che ha reso molto difficile intercettarle. Alcune sono riuscita a contattarle, intercettarle e poter dare loro questi aiuti.
Molte ragazze dell’indoor hanno spostato moltissimo la loro attività su piattaforme digitali e si sono affidate alla cam, alle chiamate erotiche, a vendita di video, etc. ovviamente il mestiere si deve adattare alle esigenze del momento. Però io mi chiedo quanto ancora continuerà il coronavirus? Quanto ancora saremo esposti? Creiamo nuove forme di povertà?
Come sta continuando la campagna oggi?
Anna: Abbiamo ripristinato la raccolta alimentare, quindi chi vuole può donare. Attualmente non vengono più a donarci tanto, perché dopo un po’ purtroppo le persone scordano che ci sono delle reti. Però devo dire che noi in precedenza abbiamo avuto tanta solidarietà e questo ci porta ad avere ancora fondi per gli alimenti e fare la spesa. Quindi ancora oggi, se ce lo chiede Sofia, aiutiamo le persone. Abbiamo stabilito che siccome di base, a parte i giorni in cui siamo zona rossa, si può uscire e si può venire al MIT, vogliamo che le ragazze vengano qui anche per incontrarci, per non limitarci a portare il cibo. Quando si esprime il bisogno e la necessità Sofia continua a portare, però tendenzialmente preferiamo che si passi di qui, così ci facciamo anche quattro chiacchiere e capiamo la situazione e come sono messe con i documenti.
Le situazioni stanno cambiando, però di base c’è un problema grossissimo, finché non ci saranno delle tutele specifiche per le lavoratrici sessuali noi possiamo solo tamponare e mai aiutarle completamente. Ci sono persone che avevano interrotto l’attività e che magari avevano qualche risparmio da parte, ma chi non ce li aveva davvero è sprofondata nel buio. È problematico il fatto che non si sia posta la questione di queste persone, che aiuti non ne hanno. All’estero sono stati stanziati dei fondi per queste persone, perché, che ti piacciano o no, esistono, è il principio di base che non si capisce molto spesso. Non è questione di ‘Io sono d’accordo o meno sull’esercizio del sex working’, anche se anche questo a me sembra assurdo, si può essere d’accordo o meno sull’esercizio di una terza persona e di quello che fa con la propria vita? Ma a prescindere da questo, quella persona è in difficoltà e la devi aiutare, non puoi ignorarla e basta.
Zerocalcare ha fatto un disegno bellissimo per la campagna Nessuna da sola, scrivendoci ‘Perché anche se non le nomini nei DCPM queste persone esistono’. È riuscito a sintetizzare un discorso molto più complesso. Ci sono stati molti attacchi alla campagna da persone abolizioniste. Come ti puoi accanire su una campagna che sta cercando di aiutare delle persone? Questo a noi è sembrato davvero assurdo. Specularmente invece, nel movimento trans femminista, si sono attivate tantissime reti di supporto, aiuto e condivisione della campagna. Noi del MIT e la rete che si è creata attorno a Nessuna da sola siamo molto soddisfatte di quello che c’è stato, però reputiamo che non sia abbastanza, abbiamo solo tamponato l’emergenza. Per noi è molto importante soprattutto la visibilità che ha avuto, per parlare di questo tema, perché altrimenti non se ne sarebbe parlato. Però è stato un passo, bisogna intraprendere un cammino, che è molto diverso. E per farlo è necessario conoscere le sex worker, interfacciarsi con loro o con le associazioni che si fanno portavoce dei loro diritti.
Come è il vostro lavoro con l’unità di strada?
Sofia: Ogni volta che ci affacciamo quando facciamo l’unità di strada, ridiamo e scherziamo per alleggerire il loro momento di tensione (se lavorano, se non lavorano), per far capire non sono da sole, che ci siamo noi con loro, anche se solo per quei due minuti, quando consegniamo la spesa o diamo i preservativi. Diciamo loro di ricordarsi di pensare alla loro salute, diciamo di ricordarsi di noi quando hanno bisogno di accompagnamenti socio-sanitari e legali. Non è facile, chi sia affaccia in un Paese che non è il proprio ha sempre questi pregiudizi su di noi e contro di noi. Quando capiscono che noi siamo la parte amica, allora poi si aprono, ma questo è molto difficile, perché ad esempio ci sono altre situazioni dove c’è chi le aiuta in realtà cerca di farci dei soldi.
Anna: Non è un caso che ci sia Sofia nell’unità di strada. Riconosciamo la sua professionalità non in virtù di una laurea, ma perché Sofia ha lavorato per tanto tempo come sex worker e quindi quando va in strada è capace di portare quella serenità che molte persone non sono in grado di portare. L’operatrice pari ha un valore importante. Lei non si mette nei panni, lei già c’è stata in quei panni, lei già l’ha vissuto, quindi non deve fare uno sforzo di comprensione, capisce le difficoltà individuali delle persone e sa portare allegria. Molto spesso capita che alcune ragazze che prima non accettavano né preservativi né lubrificanti da noi, con Sofia si siano fidate. È importante per noi abbattere non solo lo stigma che le persone hanno nei confronti delle sex worker, ma anche far capire alle sex worker che ci sono delle reti di solidarietà dal basso con le associazioni, che possono dare quel supporto che altrimenti non troverebbero.
Come è cambiato per le sex worker il rapporto con il proprio corpo? È l’elemento centrale del loro lavoro, ma le espone molto rispetto alla pandemia…
Anna: Ovviamente si sono sentite più vulnerabili, anche perché non sapevano come comportarsi, nessuno lo sapeva all’inizio. A renderti più vulnerabile è la mancanza del privilegio di poter restare a casa quando vuoi.
In un periodo in cui si parla tanto di aiuti e ristori, portare l’attenzione su dove ci sono gli aiuti e dove non ci sono e ci dovrebbero essere, ci fa capire che facciamo, letteralmente, scomparire alcune persone. Gli aiuti alimentari che avete distribuito rispondono ai bisogni primari delle persone, eppure è come se queste persone non esistessero…
Anna: C’è molto stigma e questo è un problema, a prescindere dalle motivazioni per cui tu fai lavoro sessuale. Il lavoro sessuale, come tutte le cose nel mondo, non si può dividere in dicotomie, è sbagliato contrapporre la sex worker completamente autodeterminata alla vittima di tratta, non esistono solo queste due categorie. Esistono delle persone che hanno scelto volontariamente di fare questo lavoro e poi si sono pentite. Esistono persone che lo fanno da una vita e non si pentono, dicono “Gestisco io i miei orari, gestisco io le persone con cui lavorare, come esercitare, per cui preferisco fare questo lavoro rispetto a tanti altri”. Ci sono persone che lo fanno per un periodo e poi si stancano, come ti stanchi di qualunque altro lavoro. L’universo è talmente sfaccettato che non si può fare semplicemente una divisione. E quindi è importantissima anche tutta la questione dello stigma.
La situazione dell’emergenza sanitaria ha aumentato lo stigma verso il lavoro sessuale?
Anna: Io personalmente non ho visto aumentare lo stigma. Nei nostro circuiti trans-femministi ho visto piuttosto scemare questa cosa. Persone e reti che non avevano mai preso parola, si sono esposte molto. Secondo me, stiamo procedendo per la strada giusta. Si sta almeno problematizzando la questione, con un concerto di voci e non con un’unica voce che è quella vittimizzante nei confronti delle sex worker. Però ti dico che ho anche visto molte azioni che invece sono state stigmatizzanti, che hanno perpetrato lo stigma. Ti faccio un esempio, Striscia la Notizia ha mandato direttamente un inviato, che ha chiesto a una ragazza “Ma tu sei sfruttata?”. E poi ha detto che continuano a lavorare senza mascherina in strada. Così facendo, tu poni la questione su un altro piano. Invece di chiederti qual è l’esigenza che ha spinto una ragazza ad andare comunque a lavorare nonostante una pandemia globale, invece di chiederti perché questa ragazza è costretta a tornare al lavoro nonostante una pandemia e domandarti dove sono gli aiuti statali, assolvi lo Stato e fai un processo alla ragazza. Lo Stato si è auto assolto e le stai dicendo “Tu sei vettore”, come succedeva per l’HIV. A me sembra assurda questa cosa, ancora non si è capito che il problema non sono le lavoratrici sessuali, ma piuttosto tutto quello che ci sta attorno. E soprattutto, il problema è che se tu non dai dei fondi e non dai degli aiuti, le persone sono costrette a ritornare a lavorare. Però, mi chiedo, perché si fa un servizio sulla sex worker in cui si dice “Ah ma tu vai a lavorare senza mascherina” e non lo si fa per l’operaio di Amazon o per il corriere di Bartolini? Non si fa questo paragone con un altro lavoro perché hanno già deciso che di base il lavoro sessuale non è assolutamente lavoro e che non è dignitoso per le donne e per le soggettività trans. Se iniziassimo a considerare il lavoro sessuale come lavoro, si riuscirebbe anche a contrastare lo sfruttamento in modo più efficace di come si fa.
Foto ☉☉ juno mac, CC BY-NC-ND 2.0