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Sono solo una pizza

  • Laura Carrer Luglio 2024

Ho preso vita tra il caos fragoroso di una cucina nel cuore del quartiere meneghino della movida, Isola. Ricordo nitidamente il crepitio del forno a legna mentre il pizzaiolo preparava ogni elemento che mi compone: la base di impasto lievitato, la salsa di pomodoro, la mozzarella filante, il basilico appena colto e profumato. Il tutto meticolosamente disposto e cotto alla perfezione, dall’aroma irresistibile. Così, almeno, è come mi presentano sull’app di food delivery che permette alle persone di ordinarmi. Le foto delle pizze sono accattivanti. La concorrenza con le altre è spietata, sembrano tutte deliziose e il prezzo allettante, soprattutto per chi non ha voglia di uscire.

Il mio momento

Mentre riposo sul bancone, colgo frammenti di conversazione del personale del ristorante. Una voce concitata ordina di sbrigare le consegne: a quanto pare, qualcuno mi aspetta con impazienza. Non so perché, ma sento che è giunto il mio momento, che qualcuno ha desiderato proprio me, scrollando il menù della pizzeria sull’app. Con mani esperte e veloci vengo avvolta in un cartone per la consegna, pronta per intraprendere il mio viaggio. Non so nulla di questo tragitto, solo che partirò da qui e arriverò a destinazione in un altro angolo della città. Credo nelle vicinanze, altrimenti mi raffredderei, ma non ne sono certa.

Non sono sola in questa avventura. Accanto a me ho una porzione di patatine fritte, una bibita fresca e anche un tiramisù. Spero non ci infilino tutti nello stesso cartone, uno sopra l’altro, perché rischierei di arrivare metà calda e metà fredda. Non sarebbe il massimo per essere gustata al meglio, ma tutto intorno sembra esserci molta fretta di spedirci via.

Io e i miei compagni non siamo l’unico pacco con un numero appiccicato sopra. Da uno dei quattro piccoli fori del cartone riesco a scorgere una fila di pacchetti marroncini sul bancone, ma non riesco a capire cosa contengano. A differenza dei piatti che vengono serviti ai tavoli per le coppie che chiacchierano animatamente, tutti questi pacchetti aspettano il loro turno per essere consegnati.

Ping!

E poi, con un Ping!, arriva la notifica: il terminale segnala che il nostro rider è in arrivo. «92!» esclama una ragazza che smista gli ordini. Chi sarà mai questo rider? Forse è la persona che mi porterà a destinazione? Devo dire che l’ordinazione è stata velocissima, giusto un paio di tocchi sull’applicazione. Certo mi chiedo perché non sia venuto a prendermi lui stesso, questo Marco che compare sul gestionale del ristorante, se ci teneva tanto a gustarmi, ma a quanto pare spetta a questo rider il compito di consegnarmi a lui.

Circondata dal calore rassicurante del cartone, vengo sballottata verso altre mani. Prima che il rider chiuda la borsa della sua bici sopra di me, riesco a intravedere un pezzetto di mondo esterno. Fuori è già buio, probabilmente è ora di cena. Altri rider sembrano aspettare ordini dal ristorante. Guardano tutti con occhi un po’ persi lo schermo del telefono, seduti su una bici.
Il viaggio è un po’ lungo, ma piacevole. Continuo a sentire il movimento ondeggiante della bici che mi trasporta per le strade della città. «Ping! Ping! Ping!». Non capisco cosa siano tutti questi suoni, ma penso provengano dall’app per le consegne. Sì, è così: intravedo il telefono del rider posizionato sul manubrio illuminarsi continuamente. Sono messaggi che gli indicano la strada da seguire, o che lo sollecitano a sbrigarsi.

Sfida contro il tempo

La corsa è frenetica, sembra che il rider abbia iniziato una sfida contro il tempo per far cessare quei suoni insistenti. Borbottando qualcosa di incomprensibile, capisco che decide improvvisamente di cambiare strada. «Attento! Il mio condimento non deve rovinarsi!». Vorrei gridarglielo, ma sono solo una pizza. «Finalmente un bonus, ci voleva proprio!» esclama il rider che mi sta trasportando. Mi sembra di capire che il suo tragitto sia monitorato dall’app e che abbia ricevuto una ricompensa per aver scelto un percorso più rapido.

Anche se chiusa in questo cartone, mentre pedala verso la nostra destinazione finale, avverto che la sua determinazione è alimentata dall’adrenalina del gioco. A ogni curva e a ogni frenata del fattorino, cerco di immaginare il mondo fuori con tutte le mie forze, spingendo contro il cartone che mi avvolge. Voglio intravedere cosa si nasconde oltre quel confine di carta.

«Buche maledette!» esclama il rider. Ne ha presa una grossa, che fa scivolare la cerniera della borsa in cui mi trasporta aprendo un altro piccolo spiraglio. Vengo immersa nella luce abbagliante di un lampione, un brusio di voci si mescola intorno alla bici, alcune incomprensibili, altre familiari.

Una breve sosta

Il rider fa una breve sosta in un luogo dove sono radunate altre persone come lui, in attesa di nuove consegne. «Come va? Arrivano altri ordini? Io devo portare una pizza a uno studio legale e poi torno» dice il mio rider. Ci siamo fermati in piazzale Maciachini, ho visto la targhetta all’angolo della strada. Ci sono un paio di rider che fanno quattro chiacchiere nell’attesa.

«I made 24 euros tonight,it’s 10pm, that’s not enough!» dice uno di loro guardando il telefono. Sul menù dell’app io costo 10 euro, quindi immagino che anche il mio abbia guadagnato poco. Poche ordinazioni, paga bassa. Dopo altri dieci minuti ci fermiamo sotto i portici di via Vittorio Pisani, e infine anche a Piazza Argentina. Le luci dei lampioni si fondono e il traffico è caotico. Alcune macchine sfrecciano pericolosamente vicino. «Fatti più in là, cretino!» urla il rider, gesticolando contro un taxi che cerca di superarci.

I rider che incrociamo sono davvero tanti, di tutte le età e di tutte le provenienze. Ognuno con la sua storia. Uno di loro si avvicina alla nostra bici per parlare «I go back to Pakistan for two weeks to use the money», dice «Good luck», gli risponde il mio rider. Dopo un rapido scambio di parole, ci rimettiamo in viaggio. Pedalando per le strade, il rider riceve una notifica dall’app che lo invita a sbrigarsi. Di nuovo. Lo schermo si illumina continuamente. Solo ora capisco la distanza che ci separa dal nostro punto di arrivo: 7 km, direi.

Un euro di mancia

Dieci campanelli allineati, tutti uguali ai miei occhi. Ma il rider conosce quello giusto e lo suona con decisione. «Chi è?» Dice una voce maschile. «Pizza!» Risponde il mio rider. Lo sento ansimare, ha fretta, già pensa all’ordine successivo. Lo sguardo è fisso sul telefono che continua a illuminarsi e a suonare. «Ping! ping! ping!»

Il ragazzo paga il rider in contanti, quasi senza guardarlo in faccia. «Tieni un euro di mancia, stavo morendo di fame e sei arrivato in anticipo» dice mentre mi prende dalle sue mani.
Che differenza c’è tra loro due? mi chiedo mentre Marco inizia a scartare la carta che mi avvolge. Entrambi lavorano fino a tardi, non so bene da che ora. Uno sulla strada, tra smog, pioggia e solitudine. L’altro in un ufficio, con orari più rigidi e forse con meno imprevisti. Questo Marco sembra fare un lavoro diverso, ma se mi ha ordinato è perché non aveva tempo di tornare a casa a mangiare.

«Che fame!» Dice ad alta voce mentre chiude la porta dello studio con il piede «Finalmente, stavamo per iniziare a mangiare senza di te. Quella pratica da finire ci aspetta ancora» gli risponde un collega.

Forse non avrò mai la risposta alla mia domanda. Forse è perché sono solo una pizza, nata mezz’ora fa e ora, dopo un viaggio di chilometri, scomposta nelle mani di chi mi ha ordinato. Ma so di essere qualcosa di più di un semplice pasto. Sono un simbolo del lavoro, di chi mi consegna agli altri e di chi mi mangia.


Laura Carrer è una delle due vincitrici della call per ricerche da raccontare Sommergibile con l’inchiesta giornalistica Life is a game

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Foto ☉☉ Cora, 2018, Bologna

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