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Come se a un certo punto queste persone sparissero

  • Settembre 2023

Quando, lavorando al progetto ConsideraMi, ho cercato di reperire le informazioni sul numero di minori con disabilità a Milano e sugli elementi che potessero descrivere la loro vita e quella delle loro famiglie, mi sono scontrata con la totale assenza di dati a livello locale. La situazione migliorava di poco guardando i livelli territoriali più alti.

Così, quando a maggio 2022 ho incontrato il progetto Disabled Data, ne ho colto subito l’importanza. Il progetto è stato sviluppato dalla Fondazione FightTheStroke con Sheldon.studio e l’associazione onData. Si pone l’obiettivo di mappare tutti i dati esistenti che riguardano la vita delle persone con disabilità e di renderli disponibili in un unico contenitore, accessibile e facilmente consultabile. A fine ottobre la dashboard è stata rilasciata. Mi è sembrato importante approfondire e contribuire a darne visibilità, intervistando Francesca Fedeli, co-fondatrice della Fondazione FightTheStroke e promotrice dell’iniziativa.

Com’è nato il progetto Disabled Data e qual è il suo obiettivo?

Disabled Data nasce nel 2022. Ha avuto un’ampia fase generativa ed è nato da un bisogno di FightTheStroke, ma condiviso con tanti altri enti del terzo settore che lavorano in questo ambito: recuperare una serie di informazioni quantitative, per avvalorare i messaggi che raccontiamo tutti i giorni nell’ambito della disabilità. Abbiamo pensato di partire dal capire “quanti siamo” e ci siamo resi conto che i dati disponibili erano non accessibili, non aggiornati o difficilmente consultabili. Ad esempio, per un lungo periodo il portale dell’Istat Disabilità in cifre non è stato accessibile finché non ne abbiamo reclamato la disponibilità all’Istat.

Mi sono detta: perché non prenderci l’onere di portare avanti un’indagine di portata ampia e universale su questo settore? Per fare questo ci siamo appoggiati a chi secondo noi era in grado di aiutarci ad andare alla ricerca dei dati, a chi avrebbe saputo come estrarre le informazioni disponibili e permetterci di rendere queste informazioni fruibili a persone con disabilità e ad un pubblico più ampio. Ricordo che la prima volta in cui abbiamo cercato di capire quante fossero le persone con disabilità in Italia abbiamo dovuto consultare dati da venti tabelle diverse. Se un giornalista volesse parlare di questo tema gli sarebbe molto più facile farlo per stereotipi o titoli urlati, che spendere tempo per recuperare informazioni utili a lasciare un messaggio.

Per garantire una buona e fruibile visualizzazione dei dati ci siamo appoggiati a Sheldon.studio, mentre siamo andati alla ricerca dei dati con onData, un’associazione siciliana coinvolta in molti progetti di “liberazione dei dati” a livello nazionale, per renderli aperti e accessibili. Ci siamo uniti, all’inizio, sapendo che non ci sarebbero stati finanziamenti. Questo non è un tema che fa brillare gli occhi di chi investe nelle fondazioni o nelle aziende: una tabella Excel è poco sponsorizzabile! Come Fondazione FightTheStroke abbiamo, dunque, deciso di investire sul progetto.

Come si arriva alla creazione della dashboard?

È stato un progetto collaborativo. Non avendo noi una competenza così diffusa sulle diverse condizioni di disabilità, avremmo corso il rischio di avere una visione parziale anche solo per scegliere quali potevano essere i temi prioritari da trattare (come scuola, salute, lavoro…). Abbiamo coinvolto un centinaio di persone in incontri collaborativi online per capire cosa sarebbe stato più interessante pubblicare: persone con background medico, educativo, legale e che vivevano diverse condizioni di disabilità. Si è trattato poi di cercare i dati, elaborarli e renderli disponibili a tutti.

Tutto il percorso è durato un anno. Una volta che la dashboard è apparsa online, abbiamo comunicato la disponibilità dei dati ai media, perché uno degli obiettivi era cambiare la narrazione pubblica sul tema. Solo che abbiamo trovato molto più interesse nel mondo del terzo settore, mentre da parte della stampa c’è ancora molta reticenza a trattare questo tema con la stessa dignità con cui si trattano altre tematiche.

Non esiste una definizione univoca di disabilità nelle banche dati: INPS conta il numero di persone che ricevono le pensioni, l’INAIL le persone con l’invalidità sul lavoro, il Ministero dell’Istruzione chi ha diritto al sostegno. Cos’è che rende difficile raccogliere e diffondere dati sulla disabilità?

Nel 2021 l’Istat ha annunciato l’avvio di un progetto interessante: il famoso Registro sulle disabilità, con l’obiettivo di connettere diverse fonti di dati per arrivare a un dato più sintetico e realistico. Di questo progetto però non si hanno notizie da tempo. Nonostante il nostro portale abbia suscitato molte questioni, riprese in parte anche dalla stampa, la giustificazione più comune riguarda sempre la difesa della privacy delle persone con disabilità.

L’ostacolo della privacy come primo ostacolo è una narrazione abbastanza coerente con quella più generale, per cui le persone con disabilità sono considerate tenere, vulnerabili, fragili, quindi ci preoccupiamo di non parlarne nel dettaglio. Invece, sono le stesse persone con disabilità che cercano sempre più di autodeterminarsi e che spesso sono orgogliose anche di vivere a pieno questa condizione. Pensiamo a tutti i consensi informati che firmiamo in ambito sanitario. Non c’è la volontà di non rilasciare questo tipo di informazioni da parte degli utenti finali. Oggi la nostra volontà è proprio quella di tornare a chiedere all’Istat la disponibilità di dati diversi da quelli raccolti in indagini campionarie e il rilascio quindi del Registro sulle disabilità.

L’utilità di tale operazione si riproduce anche quando si vuole rispondere alla fatidica domanda su quante siano le persone con disabilità in Italia. Dai dati Istat 2019 risultavano 3.150.000 persone, pari circa al 5% della popolazione. Per chi lavora in questo ambito, risuona spesso un altro numero: il 15% della popolazione mondiale ha una disabilità. Come mai noi in Italia abbiamo solo un 5%? Andando a leggere i dati e approfondendo con l’Istat, il dato dei 3 milioni è sottostimato, perché è frutto di un’indagine campionaria. Se andassimo a raccogliere puntualmente i dati, plausibilmente raggiungeremmo circa 7 milioni di persone, passando dal 5% al 12% della popolazione italiana. Questo è un numero che parla un po’ di più con le percentuali mondiali e può fare la differenza riferirsi a 3 o a 7 milioni di individui.

Una parte dei dati che pubblichiamo sulla dashboard arriva da Istat, un’altra da Eurostat, ente che fornisce dati comparabili per tutti i paesi europei ed è molto importante, perché soltanto da questi confronti con altri paesi riusciamo a contestualizzare i dati italiani e ad essere cittadini e cittadine più consapevoli e capire se i fondi che stanno stanziando siano adeguati ai nostri bisogni.

Che tipo di diseguaglianze genera la mancanza di dati?

Senza i dati è più difficile rendere consapevole la società civile sul tema della disabilità. La narrazione comune vuole che la disabilità sia solo una condizione permanente che riguarda alcune famiglie sfortunate. Abbiamo ancora questa visione molto pietistica e che riguarda pochi casi, eccezioni. In realtà i numeri ci dicono che una società che ha fatto delle conquiste dal punto di vista della ricerca medica, è una società che vivrà più a lungo. E che quindi sarà più soggetta a condizioni di disabilità, anche temporanea. Sono situazioni che riguarderanno chiunque: invecchiando perdiamo delle abilità e abbiamo bisogno che il contesto si adatti.

L’altro effetto è che se non esistiamo come numeri è come se non contassimo. Sono persone di cui ci si occupa poco nella vita quotidiana. Ci si occupa poco delle prospettive delle persone con disabilità che vogliono un posto di lavoro o studiare all’università. Quante sono le persone con disabilità che abbiamo avuto come compagne o compagni di classe alle elementari, ma di cui abbiamo perso traccia? È come se a un certo punto queste persone sparissero. Perché non frequentano i corsi estivi per andare a imparare l’inglese all’estero, non frequentano il conservatorio, non frequentano i nostri luoghi. Non hanno le opportunità che per noi si trasformano in possibilità concrete di vita indipendente.

Come è stato accolto il progetto dalle istituzioni e dalle comunità di persone con disabilità?

Con i vari enti c’è stata massima apertura e massima collaborazione. Ad esempio, è stato coinvolto il gruppo dell’Invalsi per lavorare sul tema dell’educazione a scuola. Vogliamo continuare a parlare con l’Istat e sollecitare la pubblicazione del Registro. Secondo me, queste alleanze e conversazioni, come questa che facciamo oggi con voi, sono iniziative che ci permettono di sollecitare le istituzioni su questi temi. Meno interesse è arrivato dal Ministero della Disabilità, che ad oggi continua a conservare un approccio poco risolutivo sul fronte dei bisogni concreti.

Tanta collaborazione c’è poi con chi lavora nel settore e con le stesse persone con disabilità che fanno attivismo. Sono soprattutto giovani ed emerge un’ampia volontà di usare i dati. Molte di loro si sono sentite coinvolte per la prima volta. Penso anche a coloro per cui sarebbe stato impossibile leggere questi dati nei PDF o negli Excel. È stato importante aver implementato sul sito la lettura vocale e la possibilità di leggere le tabelle anche usando gli screen reader. Sono interventi che hanno ampliato il bacino di utilizzo e la possibilità di sentirsi rappresentati.

Avete altri obiettivi di sviluppo della dashboard?

La dashboard è pubblica e non prevediamo un investimento successivo. I dati da cui attingono le nostre fonti sono fermi al 2019, ma ci auguriamo che chi si occupa di politiche e di rappresentazione adotti il nostro progetto pilota. Vogliamo che continui a essere visibile per chi lavora in questo in questo ambito. Abbiamo lanciato a fine dell’anno scorso anche un quiz sul sito, per sondare quanto le persone leggono e interpretano i dati.

L’obiettivo è che Disabled Data diventi sempre di più uno strumento vivente, aperto e accessibile. Vorremmo che fosse usato per estrapolare, analizzare i dati e cambiare la narrazione attuale riguardo alla disabilità in Italia.

Cecilia Pennati

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