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Dentro di sé, dentro la propria stanza

  • Febbraio 2023

Hikikomori era per me una parola lontana, l’espressione ritiro sociale ancora di più. Eppure, dalla pandemia in poi, i riflettori si sono accesi su questi termini. Sempre più citati, in particolare da chi quotidianamente si relaziona con giovani e adolescenti. Quando ho cominciato ad avvicinarmi all’argomento, la cosa che più mi ha colpito è stata scoprire che il ritiro sociale è soprattutto una risposta a un problema, oltre che un problema in sé. È, infatti, l’ultimo grido di chi vive con sofferenza il confronto con le persone adulte e con le proprie e i propri coetanei. Lo percepisco come un gesto estremo dovuto alla difficoltà di rispondere alle esclusioni e alle etichette. A causa di un modello di successo altamente competitivo e performativo, prevalente in molti ambienti, non ci si sente all’altezza, si temono il fallimento, il giudizio e il rifiuto, si vivono con malessere le aspettative e le pressioni familiari, sociali e culturali. Ci si sottrae, fino a pensare che l’unica via d’uscita sia sparire, rinchiudersi in casa, nella propria stanza, non vedere nessuno.

Sono stata attivata dagli insegnanti, perché la ragazza il lunedì mattina, accompagnata a scuola dal padre, arrivava ma non entrava. Aveva perfino un ottimo rendimento scolastico.

Insegnante di un istituto tecnico

Anche se sempre più frequentemente si incontrano storie di ritiro sociale già verso gli 11 o 12 anni di vita, il momento più critico è il passaggio dalle scuole medie alle scuole superiori. In quegli anni, infatti, si sperimenta maggiormente il proprio sé in relazione alle altre persone e aumentano le occasioni di confronto. Sono momenti che possono provocare difficoltà e disagio se accompagnati, ad esempio, da un forte senso di solitudine, di delusione o di inefficacia durante i percorsi scolastici e nelle relazioni tra pari, soprattutto se si vivono episodi di sopraffazione o di bullismo, ma anche complessi rapporti con la famiglia, da cui possono formarsi aspettative troppo alte in relazione al proprio futuro. Diversi, dunque, sono i fattori facilitanti e diverse le forme che assumono le situazioni di ritiro. Non è facile definire chi siano maggiormente i soggetti a rischio, ma neppure stimare quante siano le persone in questa situazione. Come mi hanno raccontato alcune insegnanti, è la scuola il luogo in cui solitamente ci si accorge del problema. In classe si notano reazioni emotive che oscillano velocemente da un estremo all’altro, cali drastici di attenzione o di rendimento scolastico, assenze sempre più frequenti.

Alla nostra età è difficile superare i momenti bui o i problemi familiari. Succede qualcosa dentro di te che crea un vuoto enorme e questo vuoto ti fa chiudere.

Partecipante ad un focus group

La ricerca, condotta tra marzo e luglio 2022 a Piacenza nell’ambito del progetto Exit, mi ha portato a mettere al centro il concetto di normalità. I ragazzi e le ragazze che hanno partecipato ai focus group avevano un’idea vaga di cosa fosse esattamente il ritiro sociale, ma erano consapevoli dei sentimenti e dei vissuti all’origine. Così consapevoli, da ritenerlo una strategia di sopravvivenza legittima, un esito assolutamente comprensibile. Ne parlavano come se fosse una cosa piuttosto normale.

Penso che il ritiro sia quando una persona si sente a disagio ad interagire con gli altri, soprattutto a scuola. Una paura di essere escluso dagli altri.

Gli altri ci giudicano continuamente, ci dicono se fossi più bella, più magra e quindi si crea questo disagio che porta ad isolarsi.

I social influenzano molto, già da bambini si fanno le cose perché si vedono nei video e non perché si vogliono veramente fare. Questo nel tempo porta a provare molto disagio.

I ragazzi e le ragazze riconoscono ciò che provoca il ritiro sociale, perché lo vivono e lo condividono. Sono sentimenti, pressioni, aspettative, giudizi, talmente quotidiani dall’essere percepiti come normali, come altrettanto normali sono considerati i disturbi e le patologie che spesso ne conseguono. È come se fossero persuasi e persuase che così è sempre stato e così sempre sarà. È questa presunta normalità il nodo da sciogliere perché, oltre a provocare conseguenze allarmanti di cui il ritiro sociale è solo un esempio, offusca la gravità della situazione, la percezione del problema e la possibilità di cambiamento. Rielaborare il concetto di normalità dopo la pandemia è ancora più sfidante. Mi preoccupa sentire che ora è il momento del ritorno alla normalità, senza prima averla definita. Credo che non serva ritornare, ma ripartire, facendo tesoro di quanto in questi ultimi anni abbiamo appreso. Abbiamo sperimentato, ad esempio, una precarietà emotiva, una sensazione di incertezza che si è propagata in tutti gli ambiti delle nostre vite e questo è stato uno scoglio importante per le generazioni più giovani che si sono trovate ad affrontare in queste condizioni gli anni delle scoperte, della formazione e di una tensione verso la voglia di fare delle scelte con maggiore autonomia. Inoltre, l’adozione di misure come la didattica a distanza, ha portato molte persone a pensare di poter vivere quasi esclusivamente in piccoli mondi, in luoghi di separazione, come le case, le stanze o le realtà virtuali. Questi elementi hanno portato a esporre maggiormente chi era già emotivamente più fragile e, allo stesso tempo, hanno svelato e aggravato problematiche latenti, costituendo terreno fertile per situazioni di ritiro sociale.

Da chi lavora nella scuola o in altri servizi socio-educativi possono emergere delle proposte. Cito in primo luogo l’importanza di ripartire da un percorso di alfabetizzazione alle emozioni, che possa rafforzare la capacità di giovani e adulti di osservare, riconoscere, misurarsi con le emozioni proprie e altrui ed entrare in una dimensione di ascolto di un fenomeno spiazzante come quello del ritiro sociale, consapevoli che chiunque può rientrare nelle sue maglie. Subito dopo si potrebbe ripartire dalla relazione.

Il problema lo risolvi solo stando con gli altri, avendo amici. È un discorso di educativa tra pari, manca tutto quello che prima faceva l’oratorio. Uno stare insieme con il valore del rispetto della persona, senza dirsi guarda quella com’è, guarda quella come è grassa, guarda quella che interviene sempre…queste cose se le dicono e poi si isolano dal gruppo. Ci vorrebbe, se fosse possibile, un educatore fisso in classe.

Dirigente di un istituto tecnico

Due esempi sembrano andare in questa direzione. Alcune scuole, oltre a lasciare sempre aperta la vicepresidenza, affinché ragazzi e ragazze possano liberamente accedervi per richiedere un confronto, hanno investito sul potenziale del gruppo di pari. Ad esempio, gli istituti sono rimasti aperti anche durante i pomeriggi per permettere loro di fermarsi a svolgere diverse attività e studiare insieme. Altre scuole, invece, hanno attivato le figure degli educatori e delle educatrici di corridoio. Si tratta di personale preparato a un lavoro di prossimità, con l’intento di intercettare i bisogni in un’ottica preventiva. È difficile, si sa, ma le emozioni e le relazioni sono valide alleate per un lavoro approfondito di prevenzione e di accompagnamento, che gradualmente sostituisca interventi che tamponano solo momentaneamente situazioni emergenziali.


Maria Rimondi è una collaboratrice di Codici. Le riflessioni contenute in questo articolo scaturiscono dalla ricerca realizzata nell’ambito del progetto Exit, che ha coinvolto 44 persone, tra giovani e figure professionali, sul tema del ritiro sociale.

Grafica ☉☉ Parco Studio

Foto ☉☉ Luca Meola per il progetto Welfare in Azione

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